La finanza ha una funzione vitale: dare respiro e slancio all’economia. Oggi, però, predomina una forma di finanza, quella dei mercati finanziari, che non svolge tale funzione propriamente. Il dominio dei mercati finanziari è politicamente illegittimo, economicamente dannoso, umanamente aberrante. Bisogna venirne fuori. E alcuni germi di cambiamento stanno già emergendo. Questo blog è dedicato a pensare e progettare un’altra finanza.
A dispetto della crisi, che è innanzi tutto la loro crisi, i mercati finanziari hanno acquistato un potere senza precedenti. Dettano legge, letteralmente: impongono politiche economiche agli stati, depongono governi che giudicano inadempienti, abrogano diritti che vedono come intralci, scardinano patti sociali, ridisegnano equilibri e alleanze internazionali. È un fatto. C’è chi lo considera un bene, come una forma di disciplina, la “market discipline”, che pone sotto la tutela dei mercati i governi irresponsabili. O addirittura come un primo passo verso una democrazia planetaria: un dollaro, un voto. Tuttavia, almeno finché non avremo sancito fra i diritti universali dell’uomo quello di essere identificato con il proprio conto in banca, il governo dei mercati è un governo illegittimo. Ben lungi dall’essere una nuova forma di democrazia, è una nuova forma di oppressione: il dominio dei creditori sui debitori. In altre epoche, che ci lusinghiamo di considerare sorpassate, l’autorità politica aveva il compito di riequilibrare il rapporto fra creditori e debitori. Oggi si accontenta di sancire lo squilibrio. Lo sappiamo bene, ormai, noi che viviamo in un paese a sovranità limitata, posto sotto la tutela dei propri creditori. E potremmo provare a spiegarlo anche ai nostri vicini, così pronti a chiedere prestiti alla Cina, come se questo potesse davvero essere un modo per salvare l’Europa. In un mondo in debito di leadership, sono i creditori a comandare. È un fatto, che non possiamo tuttavia accettare come una necessità, ma con cui dobbiamo imparare a fare i conti. E non ha senso prendersela con il creditore di turno, che sia impersonato da una cancelliera tedesca, da un premier cinese o da banchieri internazionali. Perché ogni creditore è anche debitore. Il tratto davvero inedito del nuovo regime è il suo carattere impersonale, anonimo, reticolare. Ecco il nuovo “popolo” che esercita la propria autorità attraverso i mercati finanziari globali in quella che alcuni si ostinano a magnificare come nuova forma di democrazia: il popolo dei creditori senza volto. È lui che regge le sorti del mondo. E lo fa in maniera dispotica, distribuendo premi e imponendo sacrifici.
Per alcuni, questo dispotismo non è un problema. A loro modo di vedere, i mercati finanziari non avrebbero bisogno di altra legittimazione che quella derivante dalla loro efficacia performativa, come strumento ottimale per l’allocazione efficiente delle risorse. Pazienza se i mercati finanziari sono talvolta un po’ crudeli, l’importante è che funzionino. La crisi, tuttavia, ha mostrato anche un secondo fatto: i mercati finanziari governano il mondo, e lo fanno male. La finanza presidia ogni ambito della vita associata… salvo quello che propriamente le compete (come la scienza economica, del resto, che pretende di occuparsi di qualunque questione, forse proprio per dissimulare la sua incapacità di risolvere le questioni strettamente economiche). I mercati finanziari fanno tutto, tranne che finanziare. Giocano, si dice. Ma il loro non è un gioco innocente, giacché impedisce anche agli altri di fare il proprio lavoro. Infatti, se la finanza non finanzia, le imprese non possono intraprendere e i lavoratori non possono lavorare. Esiste una dissimmetria che la crisi ha reso evidente: mentre la finanza può crescere anche senza un corrispondente aumento nella produzione di beni e servizi, non è vero il contrario – l’economia reale non può crescere senza il sostegno della finanza. L’ascesa al potere dei mercati finanziari è andata di pari passo con un loro allontanamento dalle attività economiche che sarebbero chiamati a servire. La crisi ha rivelato tale scollatura. Ma non l’ha creata. Semmai il contrario: è la scollatura che ha provocato la crisi. Per questo, tutti gli sforzi volti a risolvere la crisi senza mettere in discussione il ruolo dei mercati finanziari sono mal indirizzati e sono destinati a fallire.
D’altro canto, mettere in discussione i mercati finanziari non significa autorizzare l’identificazione delle banche e delle borse come capri espiatori. Il colpevole non è qualcun altro: i mercati finanziari siamo tutti noi, nella misura in cui condividiamo i presupposti del loro funzionamento. In questo odioso regime dei creditori siamo tutti implicati. Innanzi tutto, perché siamo tutti creditori: basta avere un conto in banca per contribuire a creare quella pressione sul debitore che può diventare intollerabile. Ma soprattutto, e più profondamente, perché anche chi non investe in borsa, e perfino chi protesta contro lo strapotere di Wall Street, difficilmente mette in discussione ciò su cui i mercati finanziari si fondano: il dogma della liquidità. Ossia l’idea, apparentemente naturale, secondo cui il denaro contante (la liquidità, appunto) è la forma più sicura di risparmio e, di conseguenza, si può accettare di privarsene solo in cambio di un investimento che sia ugualmente liquido o che frutti un interesse adeguato. Detto altrimenti: la moneta è il sommo bene, e deve generare interesse nella misura in cui è data a credito. Chi accumula denaro, si aspetta che conservi il suo valore. Chi lo cede in prestito, si aspetta di riceverlo aumentato. Lo dà per scontato. E in effetti è scontato, letteralmente, in termini contabili. Ecco come opera il dogma trinitario della liquidità: moneta–credito–interesse, uni e trini, inseparabili. Chi oggi lo mette in discussione? Eppure è proprio su questo assunto indiscusso che si fonda il potere dei mercati finanziari: l’ormai proverbiale avidità degli operatori di borsa sarebbe innocua e impotente, se non avesse questa poderosa leva su cui esercitarsi.
Non solo. Indipendentemente dai mercati finanziari, l’idea che la moneta sia ricchezza e che il fatto stesso di prestarla meriti di essere premiato è la radice di un male endemico, sociale e insieme antropologico. Chiamatela come vi pare. Fino a un paio di secoli fa si chiamava usura. Poi gli economisti classici l’hanno chiamata rendita. Oggi si chiama tasso d’interesse. In ogni caso, si tratta di un reddito che è ottenuto senza lavorare e senza prendere rischi e che, perciò, si distingue sia dal salario dell’operaio o dell’impiegato, sia dal profitto dell’imprenditore. Ora, nella misura in cui da qualche parte si guadagna senza lavorare, da qualche altra parte si lavora senza guadagnare. Per questo la rendita è strutturalmente intollerabile. È, come direbbe Aristotele, odiosa – che sia concentrata nelle mani di pochi redditieri o che sia democraticamente distribuita a tutti. Odiosa innanzi tutto per chi la paga, ossia per ciascuno di noi in quanto debitore: perché costituisce un prelievo forzoso, una tassa, che può assumere un peso insopportabile, fino ad acquistare la forza di un ricatto (come osservò, un giorno, Alan Greenspan, ‘un americano indebitato è un americano che non sciopera’). Più in generale, odiosa per la società nel suo complesso: perché accentua la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e toglie continuamente linfa alle parti vive del sistema economico, al lavoro e all’impresa, alimentando la sterile accumulazione. Da ultimo, odiosa per chi la riceve, ossia per ciascuno di noi in quanto creditore: perché culla tutti quanti nell’illusione che si possa vivere senza lavorare, senza assumere rischi, e perfino senza desiderare alcunché di definito, ma soltanto denaro… fino a sacrificargli ogni altra cosa, nell’ossessione autodistruttiva di liquidare tutto. La versione moderna della maledizione di Mida.
Per tutti questi motivi, si può comprendere l’indignazione di chi in questi ultimi mesi è sceso in piazza chiedendo “meno borsa, più vita”. Ma indignarsi non basta. Quanto più si vuole prendere le distanze dall’attuale sistema finanziario, tanto più bisogna saper pensare un sistema alternativo. Infatti, se la vita economica non ha bisogno delle borse, gli uomini hanno un bisogno vitale di dare credito e di riceverlo. Si può fare benissimo a meno dei mercati finanziari, ma non si può fare a meno della finanza. La finanza, propriamente intesa, è lo spazio della relazione fra debitore e creditore. Un spazio dove una persona può dar credito a una promessa (pagherò), poiché chi la fa è tenuto responsabilmente a onorarla (pagando) e dove entrambi affrontano assieme, solidalmente, il rischio che, per evenienze imprevedibili e indipendenti dalla loro volontà, il pagamento sia messo a repentaglio e debba essere rinegoziato. Dove si dà questo spazio, l’economia respira, e non accade che, semplicemente per mancanza di denaro, uno scambio non si realizzi, un uomo non lavori o una nuova impresa produttiva non abbia inizio.
Rinunciare ai mercati finanziari non significa rinunciare alla finanza. Al contrario. Potrebbe voler dire avere finalmente una finanza all’altezza del suo compito. Sui mercati finanziari, il debito è un titolo negoziabile; nell’altra finanza, il debito è un’obbligazione da onorare. Sui mercati finanziari, il regolamento di tutti i conti è costantemente rinviato, salvo poi concretizzarsi inaspettatamente nella crisi; nell’altra finanza, debitore e creditore concorrono a rendere possibile, volta a volta, il regolamento di ciascun conto. I mercati finanziari sono fondati sulla liquidità; l’altra finanza è fondata sulla responsabilità. Sui mercati finanziari si compete alternativamente per piazzare fondi o per ritirarli; nell’altra finanza si coopera per rendere possibile l’anticipazione e il pagamento. Nei mercati finanziari la crisi è endemica; nell’altra finanza, può fallire un’impresa, ma non il sistema.
Infine, rinunciare ai mercati finanziari non significa nemmeno rinunciare al mercato. Significa semplicemente rinunciare a fare mercato di ciò che merce non è, ossia della moneta e del credito. Significa avere finalmente per le vere merci un mercato in cui domanda e offerta s’incontrano davvero. La volatilità dei prezzi delle materie prime che ha accompagnato la crisi mostra quanto i mercati delle merci possano essere alterati dai mercati finanziari. Bisogna porre argini ai mercati finanziari se si vuole un mercato di libera concorrenza, opportunamente regolato e delimitato, capace di preservare la libertà su cui si fonda.
L’altra finanza non è un’utopia. Esistono numerosi esempi, antichi e moderni, di una finanza che non ha bisogno dei mercati finanziari: dalle fiere dei cambi rinascimentali alle nuove forme di corporate barter; dalle tradizionali banche mutualistiche e cooperative ai più recenti sistemi di scambio locale. Esistono numerosi esempi, antichi e moderni, di finanza che non contempla il prestito a interesse: dalla finanza islamica al venture capital, dagli esperimenti di denaro a scadenza durante la grande depressione ad alcune forme attuali di moneta complementare. Cominciano a circolare anche nuove proposte, per la riforma del sistema monetario internazionale e addirittura per l’istituzione di una camera di compensazione europea. Cogliendo questi germi di novità, e nello spirito delle nostre precedenti pubblicazioni, questo blog si propone di pensare e progettare, di studiare e promuovere un’altra finanza.
Massimo Amato e Luca Fantacci
11 novembre 2011