Da quando è nato il governo Monti si parla continuamente di «poteri forti». Questo esecutivo ne sarebbe la rappresentazione compiuta, annoverando tra i suoi membri banchieri, cattolici di peso e alti funzionari dello stato.
Personalmente non sono in grado di stabilire se sia effettivamente così. Posso avere una mia idea, che ricavo dalla conoscenza diretta o indiretta di alcuni degli esponenti, ma non sarei in grado – a voler essere serio – di argomentarla razionalmente.
Ho l’impressione che molti siano nella mia stessa condizione, ma pontifichino ugualmente. Certo, i primi provvedimenti del governo forniranno indicazioni utili sugli interessi in campo, ma occorre almeno attendere che i provvedimenti siano presi.
Mi pare però interessante l’abuso linguistico di questa formula. Meno se ne sa, più la si usa, in un crescendo di pathos e sciatteria. Perché le opzioni sono due: o i poteri forti sono davvero così visibili, e dunque si trasformano in gruppi di interesse espliciti, oppure dovrebbero essere assai più raffinati delle rappresentazioni quotidianamente infiocchettate dai retroscenisti dei quotidiani.
Ma c’è un altro rischio, al di là della sciatteria e del pressapochismo. Quando si spara così in alto, e in definitiva così nel mucchio, il pericolo è che poi si cerchi un capro espiatorio. In passato si finiva a prendersela con gli ebrei. Oggi può darsi che il bersaglio sia altrove. Ma quando si parla di «tecnocrazia», «finanza internazionale», «poteri forti» si scivola comunque facilmente.
Insomma. La precisione della lingua è una prova di qualità democratica; la sua corruzione è, al contrario, un primo campanello d’allarme.
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