Argentina agrodolceAlitalia 680 Roma-Buenos Aires: buon viaggio verso il paese sprecato

Al risveglio, la voce della signora Maria Rosa mi perforava le orecchie. Mentre alcuni cercavano invano di dormire, la chiassosa signora illustrava ai passeggeri del volo Roma-Buenos Aires la vita ...

Al risveglio, la voce della signora Maria Rosa mi perforava le orecchie. Mentre alcuni cercavano invano di dormire, la chiassosa signora illustrava ai passeggeri del volo Roma-Buenos Aires la vita idilliaca del fratello che “sta giù in Argentina”, perché “lui da lì non si muove più sai…Ha trovato una bella figliuola e vivere giù costa meno assai”. Quante volte l’ho sentita questa storia, e c’è ancora chi ci crede. Questa falsa immagine di Argentina-Eldorado ancora attrae molti turisti illusi. “Aspetta di pagare 4 Euro un amarissimo caffè, non Lavazza (ahimè le importazioni sono bloccate), poi ne riparliamo”, volevo dirle.

Il volo Alitalia 680 che parte da Roma ogni sera alle dieci, ha una fauna di passeggeri molto particolare. Sono dieci anni che la analizzo. Nella classe Business siedono disciplinati imprenditori, personaggi del corpo diplomatico, eleganti e profumate signore, qualche celebrità nazionale. Varcata la soglia e il silenzio aggraziato della classe privilegiata, delimitata da una scialba tendina grigia, si entra in un altro mondo, frastornante. E’ un vero caos. Non c’è un sedile libero, non uno spazio per appoggiare la borsa. Chi arriva per primo occupa con prepotenza ogni centimetro disponibile. “Ci sono i regali per mio figlio, sa, lì l’olio d’oliva non è mica buono come da noi in Puglia”, borbotta la signora Rosalba spazientita mentre cerca di accomodare un borsone sotto il sedile di fronte, calciandolo nervosamente con un piede. C’è gente che cammina avanti e indietro, aprendo e chiudendo gli sportelli per i bagagli in continuazione, producendo quel rumore “plasticoso” irritante. Accalcati scomodamente, ci sono soprattutto turisti, argentini e italiani, che viaggiano da un paese all’altro per visitare i parenti emigrati, chissà in quale anno e chissà durante quale crisi.

C’è chi si sposta scalzo da un posto all’altro e va a chiacchierare da un vicino, poi da un altro. Alcuni si fermano a curiosare tra le file. Altri parlano, a gran voce, ridono, mangiano, cambiano pannolini di bambini urlanti. E’ un vero formicaio agguerrito che non fa caso né alle turbolenze né agli avvisi esasperati delle hostess: “Preghiamo i signori passeggeri di rimanere seduti, con le cinture allacciate”, insiste seducente la hostess. Ma i cosiddetti signori non ci fanno proprio caso. Siamo sull’Atlantico, vicino alla costa del Brasile e le turbolenze sono frequenti e non passano inosservate. O forse sì: Maria Rosa si sorprende con qualche “uuuh, ma che è tutto ‘sto su e giù, sembra di stare sulle montagne russe” e con una risata sguaiata prosegue il suo banchetto al 24 H, narrando le gesta del fratello a un gruppo incuriosito, che intralciando il corridoio laterale, partecipa interessato della discussione e fa domande: “ma davvero? E le tasse le paga lì?”.

Il mio arduo sonno si è a questo punto definitivamente interrotto e, dopo aver lottato tutta la notte con l’angusto sedile del B777 dell’Alitalia, comincio a pensare all’arrivo: mancano solo tre ore. Vuol dire che undici sono già passate e tiro un sospiro di sollievo. I bambini dormono, con le cuffie dell’Ipod ormai scarico alle orecchie, ripiegati sui loro zainetti blu che domani serviranno per un nuovo ritorno a scuola, quando io li penserò, finalmente seduta alla mia scrivania, dopo tre lunghi mesi d’assenza. Mi chiedo cosa mi riserverà questa nuova stagione in Argentina. In nove anni ho assistito a talmente tanti cambi…

Mi viene un primo attacco di panico nel pensare all’atterraggio a Ezeiza, ai radar spesso guasti. Penso al caos dell’aeroporto, alle code interminabili alla dogana, ai documenti miei e dei bambini da presentare (chi il passaporto argentino, chi quello italiano, la residenza, il certificato di nascita, la “radicación permanente”, l’autorizzazione notarile…) e poi le ore ad aspettare le valige e a sdoganarle, una a una ai metal detector, il che provoca delle file interminabili di gente sudata che scarica e ricarica pacchi e valigioni dai carrelli sbilenchi. Penso egoisticamente a come far passare inosservati i miei due chili di parmigiano, i due Negronetti e la bottarga, ma soprattutto i mille dollari che i genitori di Aisha (l’amica undicenne di mia figlia che è venuta in Italia con noi), mi avevano dato per eventuali emergenze.

Non avevo avuto il coraggio di chiedergli come li avessero trovati: prima di partire ero stata nella mia banca di Buenos Aires ma, nel tentativo invano di ritirare i dollari dal mio conto, la signorina allo sportello mi rispose che l’AFIP(Administración Federal de Ingresos Públicos) non autorizzava l’operazione. Così sono partita senza un centesimo. Per fortuna sono italiana e, atterrata a Linate, ho prelevato gli Euro a un Bancomat e mi sono salvata.
Apro la tendina del finestrino. C’è un’alba meravigliosa. Sarà una bellissima giornata. In Argentina è ancora estate e mi diletto nel pensare al cielo limpido, al sole caldo, al verde del parco davanti a casa. Finalmente toglierò le calze, metterò via il piumino, e raccoglierò le zucchine che ho piantato in terrazzo, ovviamente con semi di produzione italiana. Con questo italian touch l’Argentina ha tutto un altro sapore.

Guardo la massa d’acqua marrone del Rio de la Plata sotto di noi, in cui riverbera un sole generoso, e il mio sguardo si perde nell’immensità verde della Pampa tutto intorno. Penso alla luce e alla vitalità delle giornate argentine e ai suoi ritmi incalzanti. “Quanto amo questo paese”, penso per un istante, ma l’applauso all’atterraggio rovina quel pensiero idilliaco. E’ come se in treno quando arrivi in stazione, cominciassi a battere le mani, un’azione che forse in Argentina sarebbe lecita. Al “kiosko” compro il quotidiano La Nación: in prima pagina un altro incidente sulle ferrovie argentine. Per fortuna non ci sono vittime, questa volta solo feriti. Inevitabilmente ripenso all’incidente di quindici giorni fa e mi torna l’amaro in bocca. Quell’amaro che contrasta quotidianamente il dolce vivere di questo paese sprecato.

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