Improvvisamente le mafie italiane e le sentenze dei giudici si riprendono la home page dei quotidiani italiani. Da un lato il maxi-Processo sulla ‘Ndrangheta denominato “Crimine”, dall’altro le nuove rivelazioni giudiziarie sulla strage di Via D’Amelio, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino. Ancora una volta serve che ci siano i tribunali e i giudici per dare rilievo al vero grande cancro che si è mangiato e continua a mangiarsi tante possibilità di sviluppo, di crescita e intere regioni (spostandosi, peraltro, sempre più a nord). In questo contesto, torniamo a sottolineare il silenzio di un governo che, anche su questo campo, dovrebbe segnare una discontinuità radicale col passato.
L’obiezione la conosco già, e quindi me la levo di torno subito: “La mafia ha 150 anni di storia, questo governo c’è da pochi mesi. Non pretenderete mica che possa cambiare le cose così in breve tempo?”. Già. Nessuno infatti pretende che un problema secolare, radicato in profondità nella struttura stessa dello stato sia nemmeno scalfito in tre mesi. Non è questione di leggi, di decreti, di emendamenti, ma di cultura profonda. Anzi, data la storia secolare delle mafie al sud, e il loro fortissimo tasso di penetrazione al nord, difficilmente si andrà mai da qualche parte senza prendere sul serio il tema di quello che – non seriamente – negli anni scorsi è stato chiamato “federalismo”.
Detto questo, tuttavia, il silenzio di questo esecutivo sulla criminalità organizzata e il suo peso mi colpisce e non mi piace. Prima, quando governavano Berlusconi e i leghisti, eravamo continuamente presi nel mezzo da una sorta di schizofrenia: da un lato Maroni che annunciava ogni 48 ore nuovi arresti; dall’altra il governo nel suo complesso che, nel ritagliare leggi ad personam, finiva spesso con il remare contro alla lotta alla criminalità organizzata. Non mancavano mai, allora, le proteste di chi, in realtà, vedeva i governi di Silvio Berlusconi sostanzialmente “parenti” della mafia, e ogni volta risalivano nel tempo su su fino a Marcello Dell’Utri, a Banca Rasini e allo stalliere Mangano.
Bene, tutto questo non c’è più, ma la mafia esiste ancora, scoppia di salute e non se ne parla. E dire che quello guidato da Mario Monti è un governo che giustamente fa dibattito sulle cose importanti, sui problemi strutturali di questo paese. Lo fa con le proposte di legge ma anche con le dichiarazioni e le interviste. Pensiamo al mercato del lavoro e all’articolo 18, all’evasione fiscale, alla riforma delle pensioni, perfino alle banche di cui questo governo sarebbe poco più che un’estensone. Di tutti questi temi in Italia si sta discutendo, a tratti molto seriamente, proprio in forza di un’idea che questo esecutivo esprime e talora traduce in azione.
Della mafia no. Roberto Saviano metteva in guardia, nei giorni scorsi, dalle infiltrazioni che premono ai bordi della linea ad Alta Velocità per dividersi la torta degli appalti. Giusto. Ma il problema non è contingente, è strutturale, e i dati di fatturato della Mafia Spa parlano chiaro. Mettiamola come volete, ma un paese in cui la prima industria del paese è un’industria illegale – che per statuto ha lo stato e la sua legge come nemico – non potrà mai competere con un mondo che corre veloce come quello di oggi.
Sono riflessioni di una banalità disarmante, lo so. Ma è anche più disarmante il silenzio in cui la questione-Mafia è caduta. Il governo faccia rumore: il consenso che si perde, a parlare di mafia, è tutta salute per il paese che piace a noi.