Pop LevanteFuga dal Campo 14, in Corea del Nord rivivono gli incubi di Auschwitz

Per chi vive lontano, la Corea del Nord è più una barzelletta che uno stato. Con le sue folli parate militari, la millantata capacità missilistica e nucleare, la falsa propaganda quotidiana che dip...

Per chi vive lontano, la Corea del Nord è più una barzelletta che uno stato. Con le sue folli parate militari, la millantata capacità missilistica e nucleare, la falsa propaganda quotidiana che dipinge la famiglia presidenziale come delle divinità, questo regime totalitario raggiunge spesso i titoli dei giornali più per le sue stranezze che per motivi realmente politici. Eppure, ci si dimentica spesso, che per chi nasce in Corea del Nord la vita è un incubo. Anzi non è nemmeno vita. Nello stato asiatico vige una dittatura comunista che si basa sulla schiavitù, lo sfruttamento e la repressione. A descrivere lo stile di vita nordcoreano arriva ora un libro indagine del giornalista americano Blaine Harden. “Escape from Camp 14” (Fuga dal Campo 14) racconta la vita di Shin Dong-Yuk, l’unica persona al mondo nata in un campo nordcoreano e poi riuscita a scappare.
Il regime di Pyongyang punisce senza pietà i familiari dei traditori dello stato e così quando lo zio di Shin tentò di scappare, tutta la sua famiglia fu incarcerata a vita. In Corea del Nord si suppone esistano sei campi di concentramento dove sono rinchiuse circa 180mila persone che sono state incarcerate senza processo né possibilità di difendersi. Il governo del paese ha sempre negato l’esistenza di questi gulag. Nei campi di concentramento (cui vanno aggiunti anche le prigioni) ogni anno migliaia di detenuti muoiono per le malattie dovute alla mancanza di cibo e di igiene. Fra le storie dei sopravvissuti (si pensa siano circa una ventina nel mondo gli individui riusciti a scappare) sono emerse le storie più atroci e assurde: vi sarebbero rinchiuse anche persone solo perché sorprese a cantare una canzone di un artista della Corea del Sud.
Shin è nato nel Camp 14 e per lui non esiste altra verità oltre quella dettata dalle guardie del campo. Come gli altri detenuti, ha cominciato a lavorare a otto anni nelle miniere senza possibilità di scelta. Turni di sedici ore, un unico pasto assicurato al giorno e il culto del presidente nordcoreano sono le uniche tre certezze che Shin ha avuto nella vita. E non avendo la possibilità di conoscere altro al di fuori del Camp 14 per Shin era questo la normalità. Tanto che quando origliò una conversazione fra la madre e il fratello che pianificavano una fuga, non ebbe dubbi a denunciare subito i familiari. E non versò una lacrima quando la madre e il fratello furono giustiziati nella piazza centrale del campo dopo essere stati torturati. “Shin non è mai stato triste per questa scelta – ha raccontato Harden che lo ha intervistato nel corso di due anni fra Seoul e la California – perché per lui non esistevano rapporti familiari come li conosciamo noi. Per lui esisteva solo il Camp 14. Quello era il suo mondo”. Solo l’arrivo di un anziano signore nello stesso gulag aprì gli occhi a Shin. L’uomo raccontò al giovane il mondo esterno e le possibilità che esistevano oltre il Camp 14: diversi tipo di cibo, gli animali, la musica. Con il passare degli anni i due divennero amici e infine organizzarono una fuga. Solo Shin riuscì a scappare mentre l’amico fu arrestato e ucciso. Dopo un periodo in Corea del Sud, Shin è andato in America e lì con l’aiuto di alcuni gruppi di supporto è riuscito a superare il suo dramma. “Dopo qualche tempo ha capito cosa aveva fatto alla madre e al fratello e ha provato un inizio di rimorso – ha detto Harden – ma per chi ha vissuto sin dalla nascita e per i successivi ventitrè anni con un’unica idea in testa è difficile cambiare modo di vedere le cose”.
“Escape from Camp 14” non è solo la storia di Shin ma anche quella dei milioni di nordcoreani costretti a vivere nella miseria e nella mancanza di ogni bene primario. Per ogni ironia sul fallimento del lancio di un missile o di una parata dai modi anacronistici a Pyongyang, bisogna pensare a chi in Corea del Nord ci vive e non ha la possibilità di andare via.

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