Se è vero che quella che i maggiori paesi industriali stanno attraversando è una “crisi dello sviluppo” e che per uscirne si debba guardare con sempre maggiore attenzione ai “fallimenti” del sistema capitalistico, l’analisi keynesiana offre preziosi elementi di riflessione.
E’ felice in tal senso l’ultimo intervento di Robert Skidelsky su Project Syndicate nel quale si fa riferimento ad un noto scritto di Keynes del 1930, ma mai abbastanza considerato per l’importanza delle sue implicazioni. Si tratta delle “Prospettive economiche per i nostri nipoti” (1), uno scritto che in molti non hanno esitato a definire “visionario”, in cui l’economista per antonomasia del “breve periodo” si proietta nel “lungo periodo” sostenendo che:
Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera;..
Keynes guarda allo sviluppo straordinario e incessante del progresso tecnologico fin dai tempi “di cui abbiamo conoscenza” e si appresta a considerare l’età moderna, il cui inizio è riferito al processo di accumulazione del capitale, rilevando come in essa si sia andata accentuando “l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni”. Questa “atroce anomalia” non è altro che l’asse portante della Teoria Generale, la constatazione per cui il processo capitalistico è produzione di denaro a mezzo di denaro(2), che per costruzione dà origine a merci rappresentative innanzitutto di valori di scambio, volti alla realizzazione di un profitto e, solo per caso, destinate a soddisfare i bisogni che i corrispettivi valori d’uso implicano.
E’ questo il contesto in cui Keynes osserva:
Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa.
Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera.
Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Né vi sarebbe nulla di sorprendente alla luce delle nostre conoscenze attuali. Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori. (enfasi nostre)
Il passaggio è cruciale. Le prospettive di sviluppo dell’economia appaiono infatti indissolubilmente collegate alle prospettive di sviluppo della tecnologia e l’intrinseca contraddizione della “povertà nell’abbondanza”, che sottende il sistema capitalistico, sembra trovare nel lungo periodo, se non un superamento, quantomeno un efficace correttivo in un adeguato dispiegarsi degli effetti derivanti dal progresso tecnologico.
E’ questo il senso della risposta che Keynes intende dare ai due opposti pessimismi che si contendono l’arena della crisi storica con cui lui e i suoi contemporanei debbono confrontarsi e che, pur sollevando molto rumore, “si dimostreranno ben presto errati”:
… il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.
Keynes è consapevole di quanto possa risultare “sconcertante” il ragionamento proposto, tutto convergente verso l’affermazione che l’uomo sta procedendo verso la soluzione del suo problema economico. E questa particolare consapevolezza si alimenta proprio della portata rivoluzionaria di quei principi, che spiegano il problema economico, e che in pochi anni avrebbero consacrato le sue posizioni nella Teoria Generale, consegnando, questa volta, una visione compiuta, ancorché inedita, del capitalismo.
Una visione che, per la prima volta dopo Marx, e nel cuore di una ortodossia teorica dominante in cui la disoccupazione è una imperfezione emendabile del processo di produzione, si concentra sulle contraddizioni intrinseche al capitalismo e per le quali quest’ultimo, lasciato a se stesso, si comporta come un sistema tendenzialmente instabile ed iniquo. Il capitalismo è un sistema storicamente determinato (e non “giustificato” secondo un ordine naturale del mondo, come si sostiene nell’ortodossia neoclassica) e che si plasma nella storia e nei rapporti tra le varie forze sociali in gioco. Il suo essere una monetary economy, dove la soddisfazione dei bisogni è secondaria allo scopo del profitto, lo espone continuamente a uno stato di crisi, dagli accessi più o meno forti, con riflessi negativi sull’occupazione e sulla distribuzione del reddito.
E’ un Keynes “inedito”, quello delle Prospettive economiche per i nostri nipoti, ma non contraddittorio e, soprattutto, proiettato su quelle visioni di “filosofia sociale” che tanto hanno contribuito a sovvertire le concezioni su cui poggiava (e, diremmo oggi, ancora poggia) la teoria economica dominante. Eccolo così immettersi nella riflessione sulla possibilità che, alla lunga, il progresso tecnologico, che sempre più va condizionando lo sviluppo capitalistico, rappresenti anche la via alta dello sviluppo economico: una società liberata dal bisogno della sopravvivenza e impegnata, invece, a soddisfare bisogni di livello superiore.
Il fuoco del messaggio di questo pamphlet keynesiano sta tutto qui ed è qui che la riflessione ci consente una lettura “a tutto campo” dell’economista di Cambridge, assai più fedele al suo Autore di quanto non accada nella vulgata corrente, intrisa di influssi neo-classici e forse anche per questo responsabile della vaghezza a cui più sopra si è accennato in tema di approcci keynesiani(3). Keynes ci scrive a chiare lettere:
E’ ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia, rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi, nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri simili.
I bisogni della seconda categoria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero essere ineusaribili poiché quanto più è alto il livello generale, tanto maggiori diventano. Il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo raggiungere presto, forse molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfatti nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici.Veniamo ora alla mia conclusione che credo riterrete sconcertante, anzi quanto più ci ripenserete tanto più la troverete sconcertante. Giungo alla conclusione che, scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere n vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana. Perché mai, potrete chiedere, è cosa tanto sconcertante? E’ sconcertante perché, se invece di guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più pressante per la razza umana: anzi, non solo per la razza umana, ma per tutto il regno biologico dalle origini della vita nelle sue forme primitive.
Pertanto la nostra evoluzione naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti più profondi, è avvenuta al fine di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l’umanità rimarrebbe priva del suo scopo tradizionale. Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti dell’uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni.
Per adoperare il linguaggio moderno, non dobbiamo forse attenderci un ‘collasso nervoso’ generale’? … Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino al momento in cui l’ottiene. Ricordiamo l’epitaffio che scrisse per la sua tomba quella vecchia donna di servizio:
Non portate il lutto, amici, non piangete per me che finalmente non farò niente, niente per l’eternità.
Questo era il suo paradiso. Come altri che aspirano al tempo libero, la donna di servizio immaginava solo quanto sarebbe stato bello passare il tempo a fare da spettatore. C’erano, infatti, altri due versi nell’epitaffio:
Il paradiso risuonerà di salmi e di dolci musiche ma io non farò la fatica di cantare.
Eppure la vita sarà tollerabile solo per quelli che partecipano al canto: e quanto pochi di noi sanno cantare!
Per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza. … Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo ‘pane’ affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito tra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.
Nel valutare la linea di progresso delle generazioni future Keynes compie un duplice “salto” di visione. Alla radice di una “domanda insoddisfatta” vi sono infatti bisogni che sono non solo storicamente determinati (così come precisato già in precedenza da Marx ne Il Capitale, ampliando in tal senso l’analisi degli economisti classici che lo avevano preceduto) ma anche, in prospettiva, “dilatabili” per quello che è il loro carattere di “non necessità”. Il progresso tecnologico non sarà quindi solo all’origine di una crescita di lungo periodo del reddito, ma anche all’origine di una ben più profonda trasformazione qualitativa della domanda. Con due implicazioni.
La prima, immediata, che ci riporta alla considerazione di un progresso tecnologico in cui il risparmio di lavoro dà necessariamente luogo a un risparmio di lavoratori.
La seconda, conseguente alla prima e ai limiti dell’utopia, che prefigura un processo di liberazione dal lavoro necessario alla sussistenza a cui fa da contro altare la possibilità e la difficoltà (al tempo stesso) di concepire una più elevata qualità dello sviluppo. In definitiva, considerando gli effetti del progresso tecnologico, Keynes assume le conseguenze che questo comporta nella ristrutturazione dei processi produttivi, secondo quella che nella comune accezione è definita innovazione di processo, ma non tralascia di considerare quelle trasformazioni che si accompagnano allo sviluppo delineando un cambiamento strutturale del sistema economico.
La “transitorietà” della disoccupazione tecnologica a cui Keynes fa riferimento ci riporta fin da subito a questa logica. Un passaggio cardinale, questo, che rimarca ulteriormente la sua distanza dalla ortodossia neoclassica, imperniata su una concezione statica del tempo, e che gli consente di elaborare una visione unitaria del cambiamento tecnologico imprescindibilmente collegata allo svolgersi di un tempo storico. Ebbene, sono proprio oggi i “nipoti di Keynes” a constatare che il “problema economico” è il maggiore problema dell’uomo e che i risultati del progresso tecnologico sono stati essenzialmente appropriati dal capitale. E quel che è peggio, sottolinea Skidelsky, è che tutto questo avviene in una sorta di “coazione a consumare”, mentre la quota di reddito che va al lavoro tende a sempre più a restringersi, e tendono ad aumentare le disuguaglianze tra i redditi.
Un meccanismo perverso, in definitiva, nel quale non è nemmeno detto che risultino soddisfatti i reali bisogni dell’uomo. Risulta allora quanto mai necessario riflettere sul messaggio che Keynes ci lascia con questo pamphlet, perché è evidente che non sarà possibile uscire stabilmente dalla crisi e riavviare il processo di sviluppo se la legge del profitto di mercato rimarrà arbitro incontrastato del contesto economico.
Una versione più estesa di questo articolo può essere trovata nel saggio di Daniela Palma, “Oltre la crisi, tra profezie keynesiane e rivoluzioni tecnologiche”, in Scienza e Società n. 7-8 – Pristem Bocconi.
(1) Economic possibilities for our grandchildren, letto per la prima volta da Keynes nel 1928 nel corso di un evento seminariale, diventa il testo di una conferenza tenuta a Madrid nel giugno 1930 ed è pubblicato in due puntate in “The Nation and Atheneum”, 11 e 18 ottobre 1930. E’ stato poi pubblicato in The collected writings of John Maynard Keynes, vol IX, pp. 321-32. In italiano la pubblicazione più recente contenente la versione integrale tradotta è quella del volume collettaneo, da cui sono riprese le citazioni del presente articolo, John Maynard Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti economico-politici, Introduzione di Giorgio Lunghini, Bollati Boringhieri, 1991. Recentemente il testo è stato riproposto a sé stante con nuova traduzione come Possibilità economiche per i nostri nipoti, a cura di Guido Rossi, Adelphi, 2009.
(2) “La natura della produzione nel mondo reale non è – come gli economisti sembrano spesso supporre – un caso del tipo Merce – Denaro – Merce, cioè inteso a scambiare una merce contro denaro al fine di ottenere un’altra merce. Questa può infatti essere la prospettiva del singolo consumatore, ma certamente non è quella del mondo degli affari, che dal denaro si separa in cambio di una merce soltanto al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo Denaro – Merce –Denaro”, intendendo così l’anteposizione del profitto al soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. J.M. Keynes, “The collected writings”, Macmillan, Londra 1973, vol. 29. Sul ruolo che la teoria monetaria della produzione ha nel pensiero keynesiano si veda anche il saggio di Giorgio Lunghini, Una rivoluzione incompiuta e un programma di ricerca. Pasinetti su Keynes (e Sraffa), Rivista di Storia Economica, a, XXIV, n. 1 aprile 2008, che propone sul tema un’ampia riflessione basata su riferimenti agli aspetti “paradigmatici” dell’economia della “scuola classica”, da Smith a Marx.
(3) Si deve alla scuola post-keynesiana, e a Joan Robinson in particolare, la sprezzante definizione di “keynesismo bastardo” al riguardo del tentativo operato dalla cosiddetta “sintesi neoclassica” di conciliare la teoria keynesiana con la tradizione neoclassica.