Incontri ravvicinati del terzo tipo, più o meno. Seduto in attesa, mi ritrovo al fianco di una simpatica cinesona. Il primo impatto è di quelli traumatici: voltandomi a sinistra ritrovo il suo viso a poco più di una spanna dal mio. “Ciao!” – mi dice servendomi in timido sorriso.
E’ divertente. Curiosa. Piena di contraddizioni. Deve dare un’esame all’Università. Candidamente ammette di non essersi minimamente preparata. Non conosce neppure il programma d’esame e mentre me lo dice scoppia in una fragorosa risata. Mi dice che non parla molto bene l’italiano ed io le contesto il fatto che molti cinesi lo parlano molto peggio di lei. Mi dice che nella nostra lingua non sa neppure scrivere ed io le faccio notare che non è nelle condizioni migliori per sostenere un’esame. Qualcuno le chiede se almeno con l’inglese se la cava meglio, ma lei sembra brancolare nel buio.
Incuriosito le chiedo quando è arrivata in Italia: “Due anni fa” – mi risponde. Sul perché mi risponde nel modo più banale possibile, ma anche nel più sincero credo, quando ammette che il nostro è il più bel posto che ci sia sulla faccia della terra. Mi dice che ci sono delle differenze tra l’Università italiana e quella cinese. E lo credo bene penso io. Tra tutte la differenza principale è una: in Cina lo studente deve effettuare periodi di studio teorico e periodi di pratica, mi dice. Ogni giorno lo studente deve mettere in pratica quello che ha studiato sui libri. Lei dice che gli studenti che fanno comunicazione devono anche preparare un cortometraggio al termine del percorso di studio. L’idea mi piace. Perché sei venuta in Italia se nel tuo Paese era meglio: “Non lo sapevo che era meglio”.
Da due anni in Italia, non scrive in italiano, non parla bene italiano, non parla inglese, iscritta all’Università le mancano cinque esami, quelli del terzo anno. L’Italia vissuta e vista da una pacioccona cinese con, a mio avviso, un grande futuro davanti.