Il talento lo si vede nei giovani come un diamante grezzo, una materia in cerca della buona forma. Un talento non educato diventa strabordante: soggetto al rapimento della melanconia, della rabbia, o dell’esaltazione, il talento indisciplinato rompe gli argini di ciò che è socialmente tollerato, perché si impone con troppa evidenza, perché prende la via della ribellione ad ogni costo, o quella dell’autolesionismo.
Il talento è un’enorme potenza che occorre tradurre in atto con un’invenzione soggettiva, perché ciascuno è chiamato ad assumersi la responsabilità del proprio dono speciale, a prendere posizione al riguardo, e questa non è mai la stessa per tutti.
Del proprio talento si può patire, e molto, se non si riesce ad annodarlo al mondo degli altri, se la differenza che esso introduce nella sua unicità (e preziosità) diventa elemento di esclusione e non di particolarizzazione. Relegato ai margini del sociale, il soggetto si aggrappa al proprio talento per non cadere in un vuoto di identità, il suo essere dipende da ciò che riesce a fare e dal riconoscimento che da questo deriva. È da qui che viene l’inibizione, l’impasse, il blocco (dello scrittore, del musicista, del pittore…), perché in gioco c’è qualcosa di troppo, si potrebbe dire che in gioco c’è tutto.
Così si diventa dipendenti dalla critica, dagli applausi, dall’avere qualcuno che ti guarda ed esclama “Ooooohhh”. L’alternativa è una tristezza dilagante, la depressione che invade come un’inondazione di pensieri orribilmente neri. E capita che si ricorra a qualche “anestetico” per fare quattro passi in qualche paradiso artificiale. Per poi ritornare all’incubo della propria vita in terra – ed è con quella che bisogna fare i conti sul serio.
Il libro della sera: i Diari di Sylvia Plath, editi da Adelphi. Per illuminare questo discorso oscuro.