“Sono cose che succedono”. Ecco cosa si è sentito ripetere a più riprese in commissariato Giacomo, 24 anni, giornalista, dopo essere stato pestato a sangue “senza alcun motivo” mentre se ne andava a fare un pic-nic con la sua ragazza a Saint-Denis, comune della periferia nord di Parigi. Sono scene che ricordano quelle del film “L’odio“, e alle quali non vorremmo mai credere. Fino a quando, poi, quelle stesse situazioni non ci ritroviamo a viverle sulla nostra pelle.
Giacomo ha traslocato a Parigi 6 mesi fa. Qui tutti sanno che certi quartieri è meglio evitarli, anche se le case sono più a buon mercato. O almeno, lo sanno tutti quelli che leggono i giornali. Ma c’è anche chi pensa che sbattere la violenza in prima pagina non diventi altro che uno strumento politico per moltiplicare i voti sfruttando la paura dei cittadini. E cosi’, Giacomo – e non molti altri come lui, in realtà – laggiù non ci è andato solo a visitare la splendida cattedrale che custodisce le spoglie dei re di Francia, ma ha proprio deciso di viverci. “All’inizio rimasi affascinato da quell’universo multietnico, cosi’ colorato, allegro, vitale”, mi racconta. “Mi sembrava quasi più bello rispetto al centro di Parigi”. Mosca bianca del quartiere, questo ragazzo di Piacenza si è integrato senza fatica tra gli autoctoni, si è confrontato con la diversità scambiando ricette culinarie e visioni politiche con i suoi coinquilini africani, è cresciuto insomma. Alla faccia di chi dice che quello è l’inferno. Poi, con il passare dei mesi, la tensione è salita. Soprattutto dopo la chiusura estiva del teatro Gérard Philipe, che stemperava l’atmosfera quando faceva buio: “alla sera iniziavi a sentirti contento di aver chiuso la porta di casa dietro di te”.
Oggi, Giacomo è alla ricerca di un appartamento nel centro di Parigi. E laggiù non ci vuole più mettere piede. “Ho bisogno di un posto tranquillo per riprendermi – mi dice, – ho paura che quei due vogliano finire il lavoro”. Eh si’, perché se non fossero intervenuti i passanti – nient’altro che spettatori impassibili durante le prime (e abbondanti) fasi dello scontro – “non so che fine avrei fatto”. L’africano che ha cominciato a picchiarlo in volto e che ha continuato ad infierire su di lui a suon di calci nello stomaco una volta caduto a terra, “non accennava minimamente a fermarsi”. Anzi, ha usufruito anche dell’aiuto del suo amico maghrebino. Due contro uno (completamente incapace di reagire) davanti agli occhi di una ragazza che, nel tentativo di difendere il suo compagno, era stata scaraventata a terra. “E’ la gratuità del gesto che mi ha spaventato – mi confessa Giacomo, a cui ora capita di guardarsi le spalle quando sente che qualcuno si avvicina a passi rapidi, – la sensazione che per loro qui sia solo un gioco, un modo come un altro per divertirsi”.
Un gioco che spesso nei quartieri come Saint-Denis puo’ costare la vita. Altrimenti a Giacomo non avrebbero ripetuto: “Sei stato fortunato!”. Difficile negarlo: “quello è un mondo a parte che ha le sue leggi”, e dove la polizia sembra non esistere. Ma il problema è che secondo Giacomo “non ci sono né l’interesse, né la voglia di risolvere il problema”. Percio’ mi chiedo: forse dei ghetti come questo, tanto simili a laboratori dell’odio, perseverano in questo stato di degrado perché è cosi’ che servono la causa dei politici? Probabilmente si’, l’importante – mi dice Giacomo – “è di non fare di tutta l’erba un fascio”. Nonostante l’accaduto, “non ho cambiato idea sugli extracomunitari, perché non dimentico di aver conosciuto tante persone straordinarie. Alimentare l’odio significa fare il gioco di quei pochi che vogliono fare la guerra“.