Chiedetegli se a lui, che ha rischiato più volte la pelle per essere qui, interessasse sperimentare le nuove frontiere del doping, per poi essere perdonato e vincente, osannato dalle folle e dalle industrie estrattive del losco pseudo-regime kazako per la vittoria olimpica a Londra nella corsa in linea di ciclismo.
Oggi Rigoberto Uran è un uomo felice, anche se ben consapevole che chi li ha accompagnato nella fuga per poi beffarlo nel finale si chiama Alexandre Vinokurov, un ciclista che nel 2007 dopo essere stato squalificato per una trasfusione omologa da donatore compatibile (una sorta di doping figurato degno degli esperimenti della famosa Germania Est), si stava ritirando ma è stato poi recuperato dal perdonismo ipocrita del mondo della giustizia sportiva.
«Dedico questo argento a tutta la Colombia ed alla mia famiglia, in particolare a mio padre», così ha detto il vincitore di una medaglia comunque storico per il suo paese che dietro di sé ha una storia di altri tempi, di quelle che avresti sentito da famosi ciclisti più di cinquant’anni fa, ma che non immagineresti più oggi nell’epoca del ciclismo milionario e chimico, dove quando vedi qualcuno in fuga, magari in montagna non puoi non pensare che abbia proprio fame.
Uran ne aveva tanta quando è nato venticinque anni fa in un pueblo poverissimo, Urrao a 100 km da Medellin, a 2.000 metri, dove per le condizioni climatiche fredde ed atmosferiche con aria rarefatta, perfino correre per un po’ può dare i suoi problemi, figuriamoci farlo in bicicletta. Ma a lui la bicicletta, regalatagli a quattordici anni da uno zio, gli piaceva e presto gli servì per lavorare al posto di suo padre, Don Rigoberto, morto durante un’ordinaria sparatoria fra paramilitari negli anni più oscuri del paese.
A soli 15 anni Rigo Jr. doveva solo correre: correre per vendere i biglietti della lotteria come suo padre, correre per vincere premi ciclistici e mandare avanti la famiglia, correre per evitare minacce e sparatorie dei Cartelli e dei paramilitari ed infine per ottenere un primo contratto da dilettante firmato da sua madre e poi per approdare in Italia a 19 anni con un contratto da professionista, senza conoscere nulla. «Ero felicissimo, sarei venuto anche in moto o in nave». Poi il sogno divenne lentamente realtà, prima in Spagna, poi con il Team Sky, dove Uran è uno fra tanti in mezzo a nomi come Cavendish, Wiggins, Rogers che oggi però lo hanno visto sul podio.
Su quel podio Uran ha rischiato di non esserci, per un errore di iscrizione e su quella strada di Londra, si è guardato indietro, impaurito che il gruppo lo raggiungesse e l’ ha perso l’attimo della vittoria ma forse si sarà rivisto al fianco di suo padre, amante dello sport e della bici con cui usciva insieme e che lo accompagnò alla prima scuola di ciclismo, dopo aver glissato su calcio e nuoto. Lui non è finito sotto un auto od un treno come augurava a tutti i giovani orfani, Fernando Vallejo nel suo libro «Medellin, capitale dell’odio» per non finire schiavi della droga o vittime della violenza.