La Nota Politica dei VentenniIlva, dove le domande hanno risposte difficili

Che valore ha, oggi, una vita a Taranto? Che valore ha la vita a Taranto? Vale di più di una vissuta a Genova? Vale di meno? Conta di meno, conta di più? E che ruolo, che importanza ha il lavoro in...

Che valore ha, oggi, una vita a Taranto? Che valore ha la vita a Taranto? Vale di più di una vissuta a Genova? Vale di meno? Conta di meno, conta di più?
E che ruolo, che importanza ha il lavoro in Italia? Al Sud, in special modo? Quale spessore, quale, se mai la rivesta ancora, imprescindibilità ha la Tutela. Della vita come del lavoro.
Il diritto alla vita è superiore al diritto al lavoro? Garantire l’uno esclude sempre, de facto, la protezione dell’altro?
La potrebbero chiamare vita, i tanti padri all’Ilva, quella che saranno – se mai lo saranno ancora- in grado di offrire ai propri figli, a impianto spento? Salubre da domani, ma spento già da oggi. Intanto velenoso, pesticida e seminatore di morte da ieri fino a quando neanche Dio forse lo sa.

Che odori hanno i fumi dell’Ilva? Che malsano miasma diffondono nell’aria già contaminata? Per i tanti dell’impianto, hanno il profumo della dignità. Della libertà. Per gli altri che li respirano e basta, senza con essi mangiare, il puzzo malsano della morte. Loro e delle generazioni a venire.
E la fame che odore ha? Non puzza anche quella? A Napoli, per identificare le infime condizioni di vita, per destino o per disgrazia, che a volte si intrecciano miserabilmente, si usa l’espressione “puzzare di fame”. Quindi puzza: è pregnante, non va via di dosso l’odore della miseria. Tal quale a quello della morte.
Questo vuol dire che sono uguali, morte e miseria, fame e cancro. Hanno lo stesso mefitico olezzo, portano le stesse sventure, abbattendosi entrambe sui figli, per cui si muore giorno dopo giorno.
Si può produrre senza uccidere, creare ricchezza senza seminare distruzione, far fiorire senza distruggere?
No, sembra di no. In questo Paese, no. Il lato lucente della medaglia nasconde sotto di sé la bruttura di quello in ombra, del prezzo da pagare. Della pena da scontare oggi e della colpa da espiare domani.
Mai saranno in equilibrio: o prevarrà drasticamente uno o l’altro. O la morte o il benessere, che poi a Taranto porta sempre al primo risultato.
La bilancia di questo compromesso, quello tra lavoro e morte, non può reggere la prova dei bracci.

Signori, all’Ilva, si lavora e si muore. Che volete fare? Morire e basta? Qui c’è la fame, la miseria, la disperazione. Al Nord la chiamano depressione. Ma non deprimetevi, signori. A Taranto, no. Non ancora. Si è fermata a Brindisi. Applausi, sorrisi amari.
Ogni giorno varcano quel cancello grande e imponente, migliaia di uomini e donne, padri e madri di figli dal futuro già segnato.
Che fare? Andare via da Taranto, subito. Il prima possibile.
Ma con quali soldi? Per andare dove? La loro terra è lì, le loro radici, lì i parenti, lì il lavoro. Lavoro, già, ma quello con la minuscola.
Ma almeno c’è: avrà la elle minuscola, ma c’è.
E ai figli, a chi nascerà non ci pensa nessuno? La ricchezza di oggi sarà la miseria dei prossimi.
Se chiude l’Ilva, un padre che vi lavora, stanotte penserà alla morte. E’ gia morto. Dentro. Non lo sa ancora, perchè ancora non la vede. Ma la morte c’è già, cova gelida in lui da tante notti. E il calore degli impianti deve essere sicuramente l’inferno.

E la politica, allora, dove stata in tutti questi anni?
La Politica? Quella non risponde. E’ occupata.

Mi scusino i lettori de Linkiesta, ma per le risposte dovranno rivolgersi ad altri.

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