Il mondo è di chi resiste. O meglio di chi “resilia”. Ah che brutta parola, d’altronde resilienza in italiano è quasi intraducibile.
Che se la resistenza l’abbiamo scandagliata in lungo e in largo in questo Paese e ora abbiamo quasi paura a tirarla fuori dagli armadi (il termine, sto parlando del termine!) la resilienza quasi non la conosciamo nel suo significato generale.
Sì certo, medici e psicologi negli ultimi anni se ne sono innamorati e ne fanno largo uso in studi in cui dimostrano come spesso e volentieri che viene fuori da eventi traumatici ha maggiore capacità di sopportare le prove del mondo. E di superarle.
Ragazzini che hanno subito violenze, che sono stati malati, tirano fuori incredibili capacità. Fanno cose che voi umani neanche vi immaginate.
Date un’occhiata qua. Io di loro ne sono innamorata. Qualche anno fa mi sono trovata alla presentazione del libro Noi ragazzi guariti, voluto dal Comitato Maria Letizia Verga, da Magica Cleme e dall’Ospedale San Gerardo di Monza. C’erano tutti, loro, i guariti. Erano bellissimi. Vivi e veri. Non santini o icone. Persone normali.
Non è straordinario chi è resiliente. E’ incredibilmente ordinario. Ma noi dobbiamo abituarci alla normalità.
Sembra infatti che per essere qualcuno, ciascuno sia chiamato a dover fare cose strabilanti. E si perde la vita. Seguono frustrazioni.
E allora, facciamo uscire la resislienza dall’ambito della cura e facciamone una way of life. Di prove in mezzo all’incertezza della crisi ne dobbiamo passare molte. Tempra e coraggio ci vogliono.
Cominciamo intanto col parafrasare la famosa canzone: we are born to be resilience.