Le carceri sotto Castel Sant Angelo, a Roma. Il Castello d’If dove viene rinchiuso il Conte di Montecristo, nel golfo di Marsiglia. Alcatraz, nella baia di San Francisco, in California. L’isola del Diavolo, nella Guyana francese.
Prigioni del passato, anche recente. Sinonimo di condizioni estreme. Luoghi di esplicita punizione. Nei quali la redenzione non è mai contemplata. L’architettura come metafora della pena. A lungo. Poi, soprattutto in Italia, da diversi anni la consapevolezza che i luoghi di detenzione fossero spesso spazi disumani. Incivili. Proprio per questo la discussione seppur incentrata sulla Giustizia ha finito per allargarsi alle architetture carcerarie. Quelle esistenti, non di rado, degradate e quindi da riorganizzarsi. Quelle da farsi, secondo criteri differenti dal passato.
L’esito formale di architetture come scuole, ospedali, uffici pubblici e carceri risuona raramente lo spirito del tempo. Eppure dovrebbe essere l’esatto contrario. Proprio perché esiste una stretta interrelazione tra l’organizzazione spaziale di un luogo e la visione delle attività che in esso si svolgono. Tanto più quando questi spazi sono di funzione pubblica, cioè destinati a contenere comportamenti a cui la società attribuisce un valore fondante.
Al carcere come architettura e sistema è dedicato un recente libro che raccoglie gli atti di due seminari tenuti a Firenze e Roma tra il 2009 e il 2010 (“Il corpo e lo spazio della pena. Architetture, urbanistica e politiche penitenziarie”, a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleoni, Luca Zevi, Ediesse, Roma, pagg. 264, euro 13,00). Tema: quali gli spazi per la pena secondo la Costituzione. Autori, Luca Zevi, architetto e urbanista, Franco Corleoni, ex sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2001 e Stefano Anastasia, ricercatore in filosofia e sociologia del diritto. La loro impronta sul testo, decisiva. L’idea centrale, quella che il tema non possa essere risolto come una questione giuridica, accademica o esclusivamente progettuale. Ma piuttosto come un mix di questi tre aspetti.
Aprire la discussione a valutazioni sulla necessità spaziale e culturale della cella è il punto di partenza. Per poi passare da un’idea di luogo e di pena “segregativa”, ad un modello più aperto. Nel quale la pena non sia una cesura onnicomprensiva con la vita fuori.
Prezioso l’excursus storico legato al contesto italiano. Dal secondo dopoguerra alle riforme del 1975, al nuovo regolamento del 2000. Fino al concorso per nuove tipologie del 2001 sul rapporto tra carcere e città.
Lo status quo è illustrato attraverso i tradimenti del dettato costituzionale. Ma soprattutto la manomissione, in corso, d’opera, di tanti progetti. Da quello di Ridolfi a Nuoro, a quello di Lenci con Rebibbia, a Roma. Oppure, ancora, a quello di Mariotti, a Sollicciano, a Firenze. Il disegno architettonico originale modificato per rispondere al sovraffollamento. Tradito il progetto di trasformazione di queste strutture da infantilizzanti a carceri dove l’esecuzione della pena è invece responsabilizzante. Come accade in Danimarca, nell’East Jutland State Prison. Nella quale sono previsti ambienti aperti e luoghi di socializzazione. Come accade, anche, in Norvegia, nella prigione di Halden. Dove tutto è autogestito. Ma anche in Spagna si sta facendo strada un’idea differente di carcere. Attraverso la sperimentazione del cosiddetto “modulo de respecto”. Nel quale il detenuto stipula una sorta di contratto in cui sono definiti doveri e necessità.
Tra modelli differenti, la politica penitenziaria s’interroga sulle alternative. Con l’architettura che ha un ruolo tutt’altro che secondario. A differenza di quanto, sfortunatamente, avviene in Italia.
16 Novembre 2012