C’è una cosa che, ho capito, terrorizza le mamme-to-be alle ultime settimane di gravidanza. E non è il dolore del parto. Quello che tutte temono, mentre il resto del mondo si preoccupa di doglie, dilatazioni e affini, è sforare la 41esima settimana e arrivare dritte sul tavolo del chirurgo. Un’eventualità meglio conosciuta come “il taglio cesareo”.
Il problema non è ovviamente il cesareo cosiddetto “elettivo”, cioè programmato per motivi nel merito dei quali non voglio addentrarmi (bimbo podalico, patologie pregresse o anche solo comodità). A fare paura è il cugino “d’urgenza”, cioè quello per cui se non ce la fai da sola ti serve un aiutino (che si presenta vestito di verde, con cuffietta e guanti sterili, armato di bisturi).
Noi mamme-to-be tifose del parto spontaneo ce lo immaginiamo così: un Edward mani di forbici della clinica, pronto a fare zic-zac, per difenderti dal quale faresti tutto quello che può aiutare l’inizio naturale del travaglio. Anche bere olio di ricino, mangiare cibo piccante, ananas, biscotti integrali, succo di prugna (tutto insieme). Oltre a farti pizzicare i capezzoli, salire sette piani di scale a piedi con 10 chili in più sull’addome, camminare chilometri e chilometri senza meta.
L’attrezzatura bellica per difendersi da tale nemico è una soltanto: un bel tracciato cardiotocografico che evidenzi una buona attività contrattile. O almeno scarsa, ma presente. La mia è ancora assente, il che mi lascia sul campo di battaglia con un fazzolettino di carta al posto dello scudo e senza frecce nell’arco. Anzi, proprio senza arco.
La paura del cesareo è, lo riconosco, totalmente irrazionale. O forse totalmente istintivo-naturalista. Non è tanto per le informazioni arrivate dal corso pre-parto – il fatto che ti tagliano sei strati di tessuti; la mortalità dell’80% fino al XIX secolo perché (guarda che scienziati!) dei sei strati ne ricucivano solo uno, quello esterno, causando emorragie fatali alle donne; le maggiori difficoltà nel recupero perché, come si dice nell’ambiente, “si tratta pur sempre di un’operazione chirurgica” – In realtà lo temo per un misto di questioni medico-psicologiche. O più semplicemente perché la mia natura mi dice che dovrei seguire altri ritmi anziché essere stressata da monitoraggi, analisi delle urine e calendari a cronometro come se fossi uno yogurt vicino alla scadenza per il quale non c’è più spazio nel frigo.
Potrei pentirmi di queste parole alla prima vera contrazione, lo so. Oppure potrei rimanere con quel fazzoletto a mo’ di scudo e senza uno straccio di contrazione, quindi finire in sala operatoria. Certo è, ed ecco un’altra cosa che ho imparato, il progresso scientifico ha via via medicalizzato sempre più un evento, come la nascita, che – passatemi la retorica – dovrebbe essere più naturale. Se la religione, per lo meno quella cattolica, ha distorto il focus dal potere creativo (quindi divino?) della donna al dolore dell’atto materiale, la scienza ha spostato l’attenzione dall’ascolto del corpo a quello di sonde e stetoscopi. Finché qualcuno, anziché visitarti, calcolerà quando devi partorire con un’app per iPhone.
Nonostante si usi il verbo aspettare, alla fine partorire è diventata una questione di tempo anzi, di corsa contro il tempo. Un ticchettio incessante per cui ogni secondo andato è perduto, più che passato. E ti ritrovi con l’affanno di Alice che insegue il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie, mentre lui grida “È tardi, è tardi ormai!”.