di Micaela Morini
Non voglio partire dalla solita definizione, vorrei provare a dire che cosa significa, per me, amare, fare, vedere e studiare il teatro.
Il teatro è innanzitutto parola; chi dice coscienza, ragione, necessità, infatti, dice parola. Parola articolata e ragionata, parola in azione e soprattutto parola personificata e non soltanto parola verbale.
Il teatro è una forma originaria di espressione, legata al modo d’essere dell’individuo verso i suoi simili, verso la società e verso se stesso; una forma, dunque, che dice qualcosa di essenziale sulla natura della società, su quella dell’individuo e sul rapporto fra l’una e l’altra.
Dice il teatro che individuo e società sono inseparabili, che l’individuo si conosce lì dov’è, nel tempo in cui è, in mezzo alle persone fra le quali esiste, nel gioco di specchi che tale rapporto crea.
Fra tutte le arti, il teatro ha una posizione di privilegio, perché le sue forme (commedia, farsa, tragedia) sono mezzi per incontrare la realtà e accettarla per quello che è, cioè inalterabile.
Nessun altro modo di vedere ed esprimere l’esperienza ha questa capacità.
Al centro di tutto questo c’è l’attore, l’uomo che, senza perdere se stesso, deve creare il personaggio. L’attore-uomo è il protagonista di un celebre diario di Konstantin Stanislavskij, famoso attore, regista e teorico dell’espressione scenica, costretto, durante la Rivoluzione d’Ottobre, a lasciare la Russia per una tournée in America. In realtà fu proprio questa fortunata tournée a far conoscere al mondo il suo “metodo”.
Giorgio Strehler nella prefazione del libro scrisse:
Qui si va bel lontani dalle carismatiche teorie! Qui si parla di lavoro quotidiano, di faticose scoperte giornaliere, di riflessioni strettamente collegate con la prassi del palcoscenico!
Giusto due titoli, per terminare questo breve post sul teatro, entrambi di K. Stanislavskij: Il lavoro dell’attore su se stesso e Il lavoro dell’attore sul personaggio, ambedue editi da Biblioteca Universale Laterza.