Probabilmente apparirà come uno scritto retrò. All’antica, perché la scelta di Pietro Grasso mi ha portato indietro con la memoria, agli insegnamenti dei nonni, delle persone più anziane. Mi sono tornati in mente quei modi dire che più o meno invitavano a non improvvisare, a rimanere nel campo che si è arato per tanti anni. Quarantatré per la precisione, in questo caso.
Non discuto da un punto di vista politico la scelta di candidarsi del procuratore nazionale antimafia; nemmeno da un profilo, doveroso per carità, etico. Ma da un punto di vista oserei dire educativo. Mi ha colpito la scelta di Grasso, tanto, probabilmente perché in passato non sono mai stato sorpreso da invasioni di campo di alcuni suoi colleghi. Da quello che potremmo definire il capostipite: Antonio Di Pietro, anche se capostipite non lo fu affatto, qualcuno lo fece prima di lui e divenne persino presidente della Repubblica. Fino ad altri che via via lo hanno seguito, tra cui ricordo i più “mediatici” Luigi de Magistris e Antonio Ingroia.
Ecco, la mediaticità. Quel voler a tutti i costi apparire che da sempre io ho considerato in contrasto con la natura e la missione di un magistrato. Un uomo che immagino al lavoro 18 ore su 24, immerso su carte e carte, perennemente proteso verso la giustizia e la verità. Consapevole di dover lottare giorno dopo giorno per il conseguimento dei propri obiettivi. Senza utilizzare scorciatoie.
Insomma ho sempre pensato che Di Pietro, de Magistris, Ingroia siano finiti a fare politica perché in fondo sono diventati magistrati per caso. Non hanno mai avuto il sacro fuoco che anima un ventenne pronto a sfidare tutto e tutto perché certo di cambiare il mondo. Non li ho mai considerati un esempio da seguire.
Pietro Grasso invece sì. Perciò considero la sua una scelta diseducativa. Lo so, il termine è forte, ma anche la sua scelta è stata forte. Perché lui, il numero dei magistrati impegnati nella lotta alla mafia e alla criminalità organizzata, con la sua candidatura, di fatto ha comunicato a tutti i ragazzi, ai giovani magistrati, a coloro i quali sognano di indossare un giorno la toga, che in fondo quello del magistrato è un lavoro “limitato”, in qualche modo è un lavoro di serie B.
E non si tratta di scomodare Montesquieu, anzi forse sarebbe il caso che qualcuno (più autorevole di me, ovviamente) cominciasse anche a dire che oggi la sua tripartizione non ha più ragion d’essere. No, Montesquieu non c’entra più. C’entra la primazia del tuo lavoro, la nobiltà del tuo lavoro. Non può essere, non deve essere, che un pur ambito scranno in Parlamento possa essere considerato più utile alla società di una scrivania da magistrato, di una scrivania da capo dell’Antimafia. Non regge, non può reggere.
E forse, anzi certamente, questo discorso è figlio del degrado della politica. Ma un magistrato, IL magistrato, finisce la propria carriera orgogliosamente da magistrato. E non fa altro. Non è con un seggio in Parlamento che si restituisce al Paese le proprie conoscenze, come ha detto Grasso oggi alla conferenza stampa nella sede del Pd. Ci sono mille modi per farlo. Mille altri modi.
Che dire? Superman non si candiderebbe. E nemmeno Perry Mason, che era un avvocato, certo, ma teso all’accertamento della verità non alla parcella. Un deputato non vale un magistrato antimafia. Almeno non in Italia. E un uomo come Pietro Grasso se lo sarebbe dovuto chiedere. E, nel caso, si sarebbe dovuto rispondere in maniera diversa.
Resta forte la mia stima per lui, ovviamente. Ma è più forte l’amarezza.