di Barbara Bernardi
Ho un Super Ego ingombrante.
È maschio, un armadio d’uomo più anziano di me e in chiaro sovrappeso.
Saggio, ma anche decisamente invadente.
Un giudice spietato, severo, puntiglioso, fastidioso. Del segno della vergine, credo.
Parla la lingua del controllo e, ad essere onesti, a lui devo la capacità di gestione e soluzione delle crisi più acute capitate alla mia vita. Come anche la capacità di giudizio e una sana dimensione etica che mi accompagna. Con lui ho potuto trasformare le calamità in opportunità esistenziali straordinarie.
Ma il mio Super Ego tende ad allargarsi, chiede spazio che non gli basta mai.
Non mi lascia un attimo, anche se da qualche anno ho iniziato a guardarlo negli occhi (nerissimi) e ho cominciato a comunicare con lui.
Ho deciso di scendere a patti, non quelli del tipo “o lui o me”, ma quelli che preferiscono “lui e me, insieme”. Ho cominciato a cercare un accordo, una divisione dei compiti e dei limiti che l’armadio d’uomo dovrebbe cercare di non superare.
Ora gli parlo, ma, diciamolo, lui ha un vantaggio su di me di almeno trenta anni.
Mi conosce. Sa i miei limiti. Esalta le mie qualità. Sceglie i ruoli e il copione.
Etichetta, bolla, firma e approva.
Insomma, mi vuole da manuale.
Il campo del confronto l’ho voluto tra i libri. I libri gialli, per la precisione, perché credo abbiano a che fare con noi, il bulimico Super Ego e l’altra me, da sempre: uno specchio letterario in cui scoprirci a vicenda con leggerezza.
Con i gialli il mio Super Ego va a nozze.
Il genere si serve spesso di uno schema controllato, è una macchina narrativa perfetta, un motore basato sul ritmo e su una gestione del flusso delle informazioni di tipo ingegneristico.
L’anziano saggio del mio Super Ego si diverte come un matto a infilarsi tra le pieghe dei misteri che le pagine di un giallo mettono in scena, e se la gode a ogni rivelazione intuita e a ogni tensione vissuta.
Ma non sa quanto mi godo io a cercare, in questo mare di perfezione geometrica, le presenze umane che sbagliano e che sono in conflitto, i personaggi incoerenti, fragili, oscuri e neri.
E anche quegli investigatori che disattendono, allegramente, lo schema che li vuole infallibili professionisti e persone irreprensibili.
In questo campo sono io a portarmi a spasso il marcantonio del mio Super Ego e a farlo divertire.
L’ultimo di questi investigatori è Jean Baptiste Adamsberg, il figlio letterario della scrittrice francese, nota con lo pseudonimo, Fred Vargas.
Adamsberg vive la vita con un andamento stralunato, forse è bello e forse no, piccolino, vestito in modo trasandato e ‘silvestre’ come la terra in cui è nato, i Pirenei.
Il suo metodo di lavoro genera stupore e invidia tra i colleghi, qualcuno giudica allucinante il suo procedere: Non combini niente, Adamsberg, (…) stai lì, ciondoli, con la testa tra le nuvole, a fissare la parete, facendo scarabocchi sulle ginocchia, come se avessi la scienza infusa e la vita davanti a te (…).
E in effetti Adamsberg sa, conosce, intuisce fino alla noia. È inevitabile per lui risolvere i casi e leggere tra le pieghe dei misteri. Si augurerebbe ogni tanto una sorpresa e non questo tipo di conoscenza.
Ma Adamsberg è anche pigrizia, passo lento, soprabito sgualcito; caffè, alcool e sonni pieni di sogni; è l’amore per Camille che non sa trattenere, ma che desidera confusamente e ostinatamente; è padre improvvisato di un figlio già adulto e amico paterno del collega Danglard; è contraddizione, lentezza e improvvisazione; è Francia, Parigi, Medioevo e leggende in pieno presente.
Amo Adamsberg perché, come spalatore di nuvole, sa vedere una realtà che la logica non comprende, sa parlare a un’umanità che sbaglia e non smette di mostrare lo stupore e la complessità della vita, la dolcezza delle contraddizioni e, infine, perché mio caro Super Ego…
La verità mica si scova così. La verità si nasconde come i funghi e nessuno sa il perché.
E come si scova?
Be’, esattamente come i funghi. Bisogna sollevare le foglie a una a una nei posti bui. Capace che è una cosa lunga.