Un bombardamento aereo seguito dall’assalto di centinaia di uomini delle truppe malaysiane nella parte orientale dello Stato di Sabah, nel Borneo, ha fatto capire che quella che fino allo scorso fine settimana sembrava essere un’occupazione pacifica frutto di antiche rivendicazioni storiche, si è ora trasformata da curiosità in un dilemma diplomatico e politico.
Lo scorso 12 febbraio un centinaio di filippini armati, appartenenti all’autoproclamato Esercito reale di Sulu, sono sbarcarti nel distretto malaysiano di Lahad Datu. Il gruppo ha preso possesso di un villaggio che ritiene parte integrante della terra su cui il sultanato di Sulu vuole far valere la propria sovranità. Alla guida del manipolo di uomini, il fratello dell’attuale sovrano Jamalul Kiram III.
Per due settimane la polizia malaysiana ha presidiato la regione cercando la mediazione per convincere i seguaci del sultano ad abbandonare l’occupazione. La situazione di incertezza ha infatti avuto ripercussioni sull’industria dell’olio di palma e fatto paventare il rischio di difficoltà per gli investimenti nel settore dell’energia e nelle infrastrutture. In particolare quelli della ConocoPhillips e della Shell.
La situazione è precipitata venerdì. Uno scontro a fuoco tra gli agenti e i filippini ha fatto almeno 14 morti, 12 tra gli occupanti. Nel fine settimana sono seguite diverse imboscate – che hanno portato il numero delle vittime a 27 – e nuovi sbarchi.
Sullo sfondo della vicenda si intreccia una doppia tornata elettorale sia nelle Filippine, dove a maggio si andrà ai seggi per il Senato, sia in Malaysia, dove entro qualche settimana il primo ministro Najib Razak dovrà evitare alla coalizione del Fronte nazionale e soprattutto al partito Umno una replica del voto del 2008, quando per la prima volta non raggiunse la maggioranza di due terzi.
Per questo il premier malaysiano giustifica la linea dura con la morte degli agenti e con la necessità di ristabilire la sicurezza. Gli occupanti si affidano, al contrario, alla storia e ai soldi. Sabah e le isole meridionali delle Filippine erano parte del regno almeno fino al diciannovesimo secolo. Nel 1878 Sabah fu data in affitto alla British North Borneo Company, i britannici ne fecero un protettorato. Un’altra versione aggiunge un passaggio precedente, con l’affitto concesso nel 1876 a commercianti olandesi che cedettero i diritti ai britannici. Con l’indipendenza della Malaysia nel 1963 la sovranità passò a Kuala Lumpur, che continuò a pagare un seppur simbolico affitto di 1.500 dollari l’anno al sultano. Uno di quei casi in cui il nodo sta nella diversa interpretazione del termine “pajak”, vendita per Londra, affitto in perpetuo per Sulu.
Per Manila e il presidente Benigno Aquino la partita è invece doppia. Da una parte si deve considerare il voto e la sorte dei circa 800mila filippini, molti dei quali immigrati irregolari, che ora si sentono in pericolo e a rischio espulsione, come già avvenuto domenica ad almeno 300 di loro.
Dall’altra l’occupazione e l’assedio rischiano di minare il processo di pace con i separatisti del Fronte islamico di liberazione Moro, con cui il governo filippino ha raggiunto un accordo quadro di pace lo scorso ottobre, proprio con la mediazione di Kuala Lumpur.
L’intesa prevede, entro il 2016, l’istituzione di una regione autonoma chiamata Bangsamoro, sull’isola di Mindanao. Il processo di pace dovrebbe quindi mettere fine a un conflitto che dagli anni Settanta del secolo scorso ha fatto almeno 120mila morti. Dagli accordi tuttavia si è sentito escluso lo stesso Jamalul Kiram III, nonostante abbia presenziato in persona alla cerimonia della firma di un’intesa che ora appare sempre più problematica.