«Non è Ballarò!». In un attimo il monito di Pierluigi Bersani durante le consultazioni con i capigruppo del M5S diventa prima un hashtag e prontamente un trending topic (argomento più discusso: #nonèballarò) su Twitter.
In realtà, il paragone televisivo era stato avanzato proprio dall’attuale capogruppo alla Camera Roberta Lombardi: «Mi sembra un po’ di stare a sentire una puntata di Ballarò, francamente». Aspetto curioso ma non sorprendente. Infatti, il pericolo che assilla il MoVimento è quello di venire accomunati agli altri partiti e, soprattutto, alla rappresentazione che il mezzo televisivo ne ha fatto per anni. Con i partiti vittime di tale rappresentazione, ma anche – s’intende – a volte complici.
Uno dei rimedi a questa minaccia, che minerebbe nel profondo lo stesso dna del M5S, è la «trasparenza», concetto per anni appannaggio del centrosinistra e in questo frangente sintetizzato dai pentastellati nel farmaco dello «streaming».
Una medicina da utilizzare, da quel che sembra, anche senza prescrizione medica e banalizzandone gli eventuali effetti collaterali (dicono possa indurre sonnolenza, si potrebbe ricordare a Crimi). E poco importa se il risultato è quello di mandare in video un incontro decisivo per le sorti del paese ottenendone una riproduzione grottesca e peraltro già vista: sembravano concorrenti del Grande Fratello durante i loro primi passi nella casa, perfettamente consci di essere ripresi, ma altrettanto consapevoli di doversi atteggiare all’opposto, fingendo autenticità.
Inoltre, in questo gioco che tale non è (#nonèungioco), chi partecipa è tenuto a mediare con i propri interlocutori dopo aver mediato con l’audience dello streaming, in una doppia negazione dell’im-mediato che, invece di annullarsi, si amplifica e ne mina il risultato.
Imperdonabile. Anche in un tempo strano come questo, in cui il termine «mediazione» è diventato de facto sinonimo di «inciucio».