di Fabrizio Valenza
La perfezione è un concetto filosofico, è un ideale spirituale, è una meta umana. È così tipico della nostra società occidentale, da divenire un faro che ha guidato interi popoli per millenni, rimanendo a brillare come una luce sulla cima dei tetti delle civiltà che si sono susseguite.
Perfezione è anche un concetto del cuore, un ideale della nostra anima e una meta delle nostre azioni. A ben vedere, la perfezione è ciò che muove la maggior parte di noi in qualunque cosa facciamo. Non che già la possediamo, ma di certo è un più o meno nascosto elemento che dirige i nostri passi, facilita o fa affondare i nostri sforzi, che talvolta ci costringe a entrare in schemi che sentiamo nostri solo per desiderio della società, per l’insostenibile leggerezza del voler essere come la società si aspetta.
Tuttavia, perfezione non è nemmeno significato che possa venire accantonato facilmente in seguito alle infinite delusioni di cui è costellata la nostra vita. Non bastano dieci, cento fallimenti a far affondare questo ideale sempre sconosciuto e sempre meno familiare passo dopo passo, ma si mostra sempre capace di risorgere dentro di noi, fuori di noi. Sopra di noi.
Talvolta ce ne sentiamo schiacciati, il suo peso ci appare insopportabile perché sappiamo essere qualcosa che ci giunge dall’esterno e che si è infilato nel nostro cuore a tale profondità, che anche il solo tentare di estirparlo ci getterebbe di colpo verso le cupe atmosfere di un animo decadente.
Nella mia vita sono sempre stato mosso dal desiderio e dall’anelito di perfezione, soprattutto quando mi accorgevo (la maggior parte delle volte e molto spesso) di esserne totalmente privo. Il mio confrontarmi con questo concetto che avevo ben scolpito dentro di me per via degli studi e della fede spirituale che mi ha condotto fin qui ha fatto sì che io mi giudicassi inesorabilmente, che diventassi lo scherno del mio super-io giudizioso e talvolta cinico. Guardalo lì, colui che pensava di poter raggiungere le vette alte, che cosa è, adesso? Questa la domanda che arrivava sempre più di fronte ai bastioni della mia coscienza. L’esercito della mia intima inimicizia era sempre pronto ad attaccare, a invadere. E io soccombevo.
Fino a quando non è accaduto un fatto per me epocale.
Un bel giorno ho scoperto qualcosa su mio padre. Il padre perfetto che c’era dentro di me e fuori di me, esempio di bellezza e serietà da giovane e di giudiziosità ed equilibrio da anziano, è divenuto di colpo qualcosa di differente. Per puro caso venni a scoprire un suo errore a famiglia già avviata, risalente a prima che nascessi, forse. Un errore così stupido e grossolano, da modificare gli equilibri della famiglia verso ciò che poi avrebbe determinato molte cose del mio animo e delle mie azioni.
Venire a scoprire questo suo errore ha avuto un effetto dirompente. Ha sciolto un ghiacciaio che ormai si stava formando da parecchi anni e mi ha mostrato un volto del padre che mi era sconosciuto.
Finalmente ho avuto a che fare con un vero essere umano, un vero uomo. L’uomo che, nel suo grossolano, stupido e plateale errore, ha saputo diventare la vera meta della mia perfezione. Mio padre ha vissuto la sua vita. Non è stata perfetta. È stata una vita umana, e averlo scoperto in tutta la sua precarietà è stato l’avvenimento per me più significativo. Detto con un pizzico di fanciullesca ingenuità, è stato solo allora che è divenuto il mio eroe.
C’è un brano di un racconto riportato da Paul Auster nel suo “Ho pensato che mio padre fosse Dio”, nel quale il protagonista racconta di una volta che rubacchiò delle mele da un albero altrui.
Dunque, ecco il signor Bernhauser che ci urla di starcene lontani dal suo albero per tutti i diavoli, e mio padre che gli domanda quale sia il problema. Il signor Bernhauser respira a fondo e si lancia in una diatriba sui bambini ladruncoli che non rispettano le regole, su quelli che gli portano via tutta la frutta e altri mostri della stessa risma. Mio padre doveva averne avuto abbastanza, perché la prima cosa che fece fu di gridare al nostro vicino di crepare. Il signor Bernhauser smise di urlare, guardò mio padre, diventò paonazzo e poi livido, si strinse le mani al petto, assunse un colorito grigiastro e crollò lentamente a terra. Pensai che mio padre fosse Dio. Il fatto che potesse inveire contro un povero vecchio e farlo morire a comando andava oltre le mie capacità di comprensione.
Ecco, è questo il concetto della perfezione. Un qualcosa che va al di là delle capacità di comprensione, ma che sappiamo usare ogni giorno. Molto spesso diventa un gabbia che solo un’umana esperienza è capace di abbattere.