Il libro ritrovato. Consiglieri di pagineIo non so, ma per fortuna lo so

di Barbara Bernardi Come insegnante cerco di educare al dubbio. Sarà perché, quando ero una studentessa, ho molto apprezzato quegli insegnanti che mi hanno mostrato l'importanza di fare buone doman...

di Barbara Bernardi

Come insegnante cerco di educare al dubbio.
Sarà perché, quando ero una studentessa, ho molto apprezzato quegli insegnanti che mi hanno mostrato l’importanza di fare buone domande sulle cose, per provocare dubbi sulla realtà. E sarà anche perché come persona non smetto di interrogarmi.

Il percorso dell’insegnamento non ha solo lo scopo di aumentare le conoscenze. Primariamente serve a porre la questione del quanto ancora c’è da apprendere, di cosa va appreso e di come farlo.
Il percorso della relazione educativa è composto, in prima battuta, da una pars destruens che serve a mettere in luce quanto ancora non si conosce. Non ha nulla di punitivo, ma è un’immensa possibilità. Capire quanto non si sa può aumentare la consapevolezza dei limiti personali, può aprire porte interiori e verso la realtà esterna, può stimolare una curiosità potenzialmente perenne, può infine mettere in ascolto.
Porta a fare domande, a dubitare e a cercare.
È la molla positiva di ogni frustrazione: una tensione creativa per il suo superamento o risoluzione.
Ed è la condizione di una relazione fertile e rispettosa con gli altri.

Certo, pare di non poter dire nulla di nuovo e originale dopo che già Socrate ammise che Saper di non sapere è vera condizione del sapere. Ma non è solo una questione di citazioni e di riconoscimento delle fonti del proprio pensiero.
È una questione di azioni concrete.
Questo tipo di augurabile ignoranza mantiene vivo il desiderio di imparare, non ci fa sentire giunti alla meta e alimenta le passioni. È un non sapere vitale che sa di saggezza. Lo si deve praticare per apprenderne la forza e poterlo promuovere in un’aula risultando credibili.

Mi piace allora citare Carver, il grande scrittore e insegnante americano, che nel suo “Il mestiere di scrivere” ci racconta i suoi faticosi inizi e, a un certo punto, scrive:

Tanto tempo fa – era l’estate del 1958 – mia moglie, io e i nostri due bambini ci trasferimmo da Yakima, Stato di Washington, in un paese appena fuori Chico, California. […] Ma all’epoca del nostro trasferimento qualcosa nelle ossa mi diceva che dovevo farmi un po’ di cultura prima di andare avanti e diventare uno scrittore. Allora attribuivo un’altissima importanza allo studio. […]
Dovete capire che nessun membro della mia famiglia prima d’allora era mai andato all’università, anzi nessuno era andato oltre le otto classi dell’obbligo. Non sapevo niente, ma almeno sapevo di non sapere niente.

Sappiamo chi è diventato Carver e immaginiamo quanto del suo talento sia stato reso manifesto da questa consapevolezza e dalla necessità di colmare i vuoti.
Ecco perché ci sono d’aiuto i libri e gli scrittori: perché ognuno di loro è una porta che si spalanca per farci imparare e sentire cose nuove, ma soprattutto per alimentare la consapevolezza di quanto ancora non sappiamo.
E questo, voglio crederlo, ci fa vivere meglio, anche se, ne sono certa, rende spesso insopportabile abitare questo momento storico pieno di ignoranza arrogante e inconsapevole.

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