di Micaela Morini
Voglio raccontarvi un aneddoto, una conversazione tra il grande Stanislavskij e il silenzioso Cechov.
Siamo a teatro, durante le prove del Gabbiano di Cechov. Stanislavskij, per rendere tutto più reale, voleva mettere sul palco delle rane e delle libellule vere.
Ne discusse con Cechov il quale gli chiese: “Perché?” e Stanislavskij rispose: “Perché è vero, è più realistico”.
Al che Cechov disse che era inutile, allo stesso modo in cui sarebbe stato inutile togliere da un ritratto a olio il naso dipinto per sostituirlo con un naso vero.
Sul piano dell’interpretazione scenica, l’attore deve tracciare una linea dei pensieri che facciano da motore per i movimenti dell’attore, che spesso non hanno alcuna relazione con lo sviluppo dei dialoghi.
In Cechov l’aspetto esteriore del personaggio nel senso tradizionale del termine non dice nulla sul destino del personaggio stesso.
Ecco perché – dice Stanislavskij – si sbagliano coloro che rappresentano nelle sue opere la trama in sé accentuando le linee esterne delle parti e non creando le immagini interne e la vita interiore. In Cechov è interessante l’anima dei personaggi.
In Cechov è interessante l’anima dei personaggi.
I personaggi non si narrano, non concedono confessioni. Le loro tensioni restano in trasparenza, eppure ti coinvolgono, trasmettono tensione. È per questa particolare situazione che Stanislavskij ha definito la teoria del conscio attraverso l’inconscio.
Il subconscio esiste in noi, ma non è da noi conosciuto e si manifesta in modo imprevedibile.
Eppure la maggior parte dei nostri pensieri sono innescati nel subconscio e Stanislavskij nota come in teatro tutto, invece, sia a livello superficiale; le azioni e i sentimenti trasmessi dall’attore sono tutti prefissati e controllati.
E in Cechov questo tipo di recitazione non può funzionare.
Nel teatro di Cechov non c’è trama vera e propria, nel senso tradizionale. La vicenda è portata avanti più che altro dall’intenzione tra i personaggi e le loro caratteristiche.
Eccetto che con Shakespeare, non credo che nel teatro ci fosse mai stato un autore capace di porre le questioni poste da Cechov. Egli fu assolutamente rivoluzionario e il suo teatro costrinse gli attori a fare qualcosa di diverso da quello che avevano sempre fatto, uno sforzo maggiore per dare spessore al personaggio.
Non avevano uno stile vero e proprio e dovettero imparare a recitare in un’altra maniera, completamente nuova. Emerge in Cechov il sottotesto, ossia tutti i pensieri, i desideri, le sensazioni, le emozioni del personaggio che non sono nello scritto, ma a cui l’attore deve, d’ora in avanti, pensare per lavorare al meglio. È molto difficile lavorare con questo materiale senza coinvolgere il subconscio.
Credo che gli ostacoli incontrati oggi dagli attori nei drammi di Cechov siano gli stessi incontrati ai tempi delle prime messe in scena e si possano riassumere in un unico vecchio problema: la difficoltà nel rapporto tra forma e contenuto. Quando in Russia si cominciò a recitare e a scrivere in modo diverso, lo stile predominante era quello del melodramma: personaggi o tutti bianchi o tutti neri, con trame dalle forti emozioni. Cechov portò tutto a un altro livello, pieno di trappole per gli attori: da una parte bisognava aderire di più alla vita, dall’altra, però, non si doveva essere solo “naturalistici”, perché c’era una poesia di cui tener conto.
Ed è proprio questa poesia a provocare una forma più alta di espressione artistica. Quella che noi spettatori, ogni volta che ci sediamo in un teatro al buio, speriamo di incontrare.