Muore dopo 14 ore al pronto soccorso. Una donna di 53 anni era arrivata al Policlinico di Tor Vergata in codice giallo per dolori addominali ma poi le sue condizioni sono peggiorate. Dopo accertamenti, alle 19 le hanno diagnosticano dei calcoli alla cistifellea. Secondo i medici uno di questi calcoli aveva perforato la cistifellea. Gli stessi medici decidono di tenere la paziente in osservazione per la notte.
Dopo aver trascorso 8 ore in barella, la donna è stata portata nell’astanteria del Dea, dove è rimasta fino alla sua morte.
«Lamentava fortissimi dolori e urlava disperatamente», racconta il marito. Per tutto il giorno le è stato somministrato un antidolorifico, che però non alleviava la sua sofferenza. I familiari si rivolgevano al personale, ma nessuno, secondo i racconti dell’uomo, si occupava della questione.
Questo per oltre 14 ore. Una vergogna italiana, un’indecenza senza senso.
E questa storia mi colpisce profondamente sia per l’assurdità di una morte che sarebbe stata evitata in qualunque altro Paese civile al Mondo ma anche perchè io stesso sono stato vittima della malasanità romane e sopravvissuto per miracolo. Anzi, perchè, a differenza della povera signora morta per calcoli (nemmeno nel medio evo!), ho potuto alzare il telefono a chiamare il “classico amico medico” che mi ha salvato al vita.
Ma vi racconto meglio: circa un paio di anni fa, all’alba di una domenica, mi sono svegliato in preda a dolori lancinanti e dopo esser svenuto i miei familiari (fortuna che non ero solo) mi hanno accompagnato al Policlinico Umberto I, dove al Pronto Soccorso mi hanno dato un codice rosso.
A questo punto, abbandonato su di una barella ed in preda a dolori pazzeschi, ho aspettato ore un medico che mi visitasse. Finalmente qualcuno giunse e constatando la gravità della situazione mi ha fece fare una serie di analisi, che portarono alla diagnosi: calcoli renali.
Acciochè un’infermiera, mentre ero sempre sulla solita barella nel corridoio, mi mise una flebo (del tutto inutile, visto che il dolore era lungi dall’abbandonarmi) di non so cosa e mi lasciò li per un tempo che mi parve interminabile. Passate altre ore di passione, finalmente come un miraggio, un medico mi disse: “non hai nulla, solo calcoli. Ti dimettiamo”.
Bene pensai, il dolore passerà ma almeno me ne posso tornare a casa, e così feci. Ma nulla, il dolore non faceva che aumentare, con i miei familiari che mi dicevano “dai, chiamiamo l’amico xxx (medico) e fatti visitare”, ma io, forse stupido nel mio idealismo, rispondo “no, andiamo in un’altro Pronto Soccorso, probabilmente non è nulla di grave”.
Mi rimettono in auto e via verso il Policlinico di Tor Vergata (giust’appunto). Appena arriviamo i medici nemmeno mi visitano e, qui neanche la barella nel corridoio, mi mollano su una sedia della sala d’attesa. Dicendomi: “tanto non sarà nulla di grave, tu aspetta che prima o poi passa il medico”.
A questo punto in preda a dolori mai provati prima ho ceduto e, con vergogna, ho fatto chiamare il mio “santo in paradiso”. Dopo un’ora ero in una bella stanza (in un altro ospedale pubblico) dove mi hanno visitato immediatamente e curato con una procedura d’urgenza perchè la mia situazione era (ovviamente) molto più grave di quanto diagnosticato in precedenza.
Il giorno dopo stavo male, i dolori dei calcoli sono micidiali, ma il pericolo di vita rientrato.
Io sono sopravvissuto alla mala sanità perchè ho amici, ma è ingiusto che chi non ne ha debba morire.
E’ ingiusto che la sanità funzioni solo per i raccomandati. E’ ingiusto che la salute, diritto inalienabile e fondamentale, non sia garantita a tutti. E’ ingiusto perire, fra atroci sofferenze, a 53 anni per dei calcoli.