MarginiInterviste filosofiche – Raoul Kirchmayr

Non credo di averglielo detto, ma ho seguito un suo seminario a Trento, alcuni anni fa. Era su Merleau-Ponty. Poi ho letto la sua magnifica Introduzione a M.-P., e gli ho chiesto l’amicizia su face...

Non credo di averglielo detto, ma ho seguito un suo seminario a Trento, alcuni anni fa. Era su Merleau-Ponty. Poi ho letto la sua magnifica Introduzione a M.-P., e gli ho chiesto l’amicizia su facebook. Abbiamo scambiato qualche messaggio, e debbo ammettere che una delle pochissime cose buone di questo social-medium è la possibilità di rompere qualsiasi formalità, ed inserirsi, quasi de visu, in una conversazione platonico-galileiana, e siamo diventati amici. Continuando i nostri incontri con pensatori, gli ho chiesto di rispondere alle domande che mi interessavano. Buona lettura (Sono quasi sicuro che, fosse ancora vivo Jacques Derrida, non si sarebbe sottratto al colloquio. ☺)

Raoul Kirchmayr è docente di Filosofia e Storia nei Licei e professore a contratto di Estetica all’Università di Trieste. Ha studiato a Trieste (con Pier Aldo Rovatti), Bruxelles (ULB, con Pierre Verstraeten), Parigi (EHESS, con Jacques Derrida). È redattore di “aut aut” e membro dell'”équipe Sartre” dell’ITEM (ENS, Parigi). Tra le ultime pubblicazioni la cura del fascicolo monografico di “aut aut” dedicato a Georges Didi-Huberman e un dossier su Sartre e Franco Basaglia uscito in Les Temps Modernes.

Cosa è la filosofia per te?
Difficile rispondere. È molte cose assieme, che rispondono a esigenze, desideri, passioni e pratiche differenti. È come un punto – o un’istanza – in cui queste differenze si incontrano senza mai ridursi ad un’unità, per farsi così discorso. Ciò che più mi interessa è che questa unità non può che essere inquieta e che si contesta da sé senza sosta. Quando la filosofia – ammesso dunque che ve ne sia una, pure quella che va sotto il nome di philosophia perennis – smette di contestare, e con ciò di contestarsi, smette pure di essere filosofia e diventa qualcos’altro. Il travaglio interno della filosofia, l’esigenza del suo farsi discorso, è ciò che chiamo la sua ferita. Ciò che nutre la filosofia è il suo traumatismo. All’origine – un’origine che non si dà mai – ci sarà stata una ferita. La filosofia è tutto ciò che si impegna a ricucire la ferita. Perciò la filosofia non può che essere esposizione originaria al trauma e sua ricucitura. Allo stesso modo, non potrà che essere impegno, in nome di una contestazione di ciò che non ammette, di ciò che esclude e rimuove la ferita. Al tempo stesso, la filosofia è anche ricerca di una via di fuga – che si sa tale e che si scrive come tale – rispetto a un destino che coincide con la nostra “situazione”. Qui, evidentemente, la questione della filosofia come metafisica ed esistenza effettiva di ciascuno tocca il suo punto più incandescente.

Quale credi sia il rapporto tra autobiografia e pratica filosofica?
Non so bene come intendere l’espressione “pratica filosofica”, dal momento che, come dicevo, non ce n’è una sola. Al contrario, stiamo assistendo alla tendenza di attribuire un senso “filosofico” a ogni tipo di pratica. Il che può anche essere legittimo, ma allora dovemmo dire che la vita stessa può coincidere con la filosofia. Ed è infatti il caso della testimonianza di colui che si dice “filosofo”. Ma qui incontriamo un problema assai rilevante. Infatti, ogni filosofia che si pretende tale e che esclude la questione dell’autobiografia non potrà che destiture da sé la propria pretesa di qualificarsi come filosofia. Questo vuol dire che ogniqualvolta il supposto “filosofo” tralascerà – nella forma della sua pratica della filosofia – di includervi il gesto della propria iscrizione, non potrà che dare luogo a un’operazione ideologica. Se ideologia è la costruzione di saperi che si vogliono universali e che programmaticamente escludono tutto ciò che rischierebbe di comprometterne lo statuto di universalità, allora la filosofia – la cattiva filosofia, intendo, perché ce n’è – si fa ideologia. Più o meno raffinata, più o meno articolata ma sempre ideologia. Per questa ragione cerco di interessarmi ad altri saperi che mettono in questione le forme dell’iscrizione del soggetto nei campi simbolici e pratici. In primo luogo la psicanalisi.

Quale pensi sia la differenza tra la pratica filosofica nell’Accademia e non solo francese e italiana?
La domanda implica un termine che si contrapponga alla parola “accademia” e che non è esplicitato. Rimaniamo sul termine “accademia”. Sicuramente ci sono delle filosofie delle università. La filosofia universitaria è contemporaneamente indispensabile e insufficiente. Indispensabile perché garantisce la riproduzione di saperi talvolta molto sofisticati, all’interno di una cornice istituzionale, quindi garantendo la loro continuità storica; insufficiente perché rischia di diventare rapidamente scuola, irrigidendosi in un sapere cristallizzato. Allora è la fine della filosofia, la quale diventa uno dei tanti nomi che occultano micropoteri universitari, rendite di posizione personali e di “cordata”, e ogni genere di interesse legato al funzionamento della burocrazia. D’altronde questa è una tendenza funzionale alla logica del “mondo amministrato” e, al tempo stesso, alla riduzione dello spazio di libertà richiesto dalla filosofia (e dai saperi cosiddetti “umanistici” in generale). La filosofia e le humanities possono continuare a sopravvivere – questa è l’ingiunzione – a patto che neutralizzino le loro pretese di contestazione del “mondo amministrato”. Vedo che questo processo è ovunque ormai molto avanzato e che spesso sono gli stessi universitari a legittimarlo, confidando con ciò di potersi garantire – ancora per un po’ – un minimo di spazio istituzionale. Temo che, tempo una generazione, dovremo decretare la morte reale dei saperi umanistici. Certo, potranno ancora vivere spettralmente, come d’altronde hanno già appreso a fara: così le nostre ex-facoltà umanistiche diventeranno alla fine dei musei custoditi da grigi e occhiuti sorveglianti di un presunto sapere.

Cosa pensi della cosiddetta “pop filosofia”, e del “nuovo realismo? Si tratta solo di mode, o hanno elementi interessanti dal punto di vista teoretico
Anche questo è un discorso difficile, che avrebbe bisogno di analisi lunghe. Abbiamo provato ad affrontarlo lo scorso anno nel quadro della manifestazione di divulgazione filosofica “Filosofiagrado” che si tiene appunto nell’isola di Grado, in Friuli Venezia Giulia, all’inizio di settembre, e di cui sono il responsabile scientifico (quest’anno, per inciso, ci occuperemo del tema della scomparsa e della nostalgia della figura paterna). Per un intero weekend abbiamo cercato di trovare il bandolo della matassa del rapporto tra filosofia e società dei media. Perché tanto la “pop filosofia” quanto il “nuovo realismo” non possono essere studiati e compresi al di fuori di un mondo potentemente mediatizzato come è il nostro. La prima con un ampiezza che è ormai mondiale – basti pensare alla sola figura di Slavoj Zizek, globe trotter della filosofia pop – la seconda limitata al contesto nazionale – con tutti i limiti che caratterizzano l’attuale congiuntura politico-culturale italiana. Per molte ragioni temo che siano due forme sintomatiche – e per certi versi solidali tra loro – del processo di esaurimento dei saperi istituzionalizzati: tra la “filosofia del n’importe quoi” e la morte dell’accademia (o lo stato di coma vegetativo in cui viene tenuta, così i benpensanti non si scandalizzano) c’è una logica strettissima. Purtroppo moltissimi attori del campo filosofico e culturale, gli accademici in primis, non riescono a riconoscere il profilo di questa costellazione – che chiamerei, in sintesi, “neoliberale” – e non sono in grado di prendere le contromisure adeguate, almeno per tenere le posizioni. Con la duplice conseguenza della museificazione e della vetrinizzazione della filosofia.

Stai preparando qualche altro testo?
Vorrei finire di scrivere un libro su Thomas Bernhard, se riuscirò a trovare il tempo quest’estate. E portare a termine una ricerca su Benjamin e Warburg che è in cantiere da oramai più di quattro anni e che desidero possa vedere la luce presto. Il prossimo autunno uscirà invece un lavoro di edizione che ho condotto assieme al mio amico Michel Kail, nel quadro dell'”équipe Sartre” dell’ITEM (Institut des Textes et des Manucrits Modernes) dell’Ecole Normale di Parigi. Si tratta della conferenza tenuta da Sartre all’Istituto Gramsci, alla fine del 1961. Fu uno straordinario momento di dialogo tra uno dei principali intellettuali critici e il mondo culturale vicino od organico al PCI. L’edizione francese uscirà per una giovane casa editrice molto attiva, che pubblica dei bei volumi di pensiero critico e che si chiama Les prairies ordinaires. Presenteremo in anteprima il volume all’Institut Français di Londra nel prossimo ottobre.

Quali libri consigli di leggere, essenziali, per una persona che si interessi di filosofia?
È la domanda che mi fanno alcuni tra i miei studenti e le mie studentesse del liceo. La risposta è sempre la stessa: tutto quello che vuoi. Annusa, sfoglia, senti il sapore della scrittura di un autore, questo gli dico. Poi, come per ogni incontro, ci deve essere una buona dose di casualità. Cerco di capire qual è il desiderio che spinge lo studente o la studentessa, che cosa lo appassiona (letteralmente!) affinchè possa trovare da solo o da sola una strada. Ma non potrà che essere lui o lei a scegliere. E poi si può trovare tanta filosofia in ciò che non si presenta come filosofia!

Potresti anche dire brevemente quello che vuoi, circa il nuovo numero di Aut Aut.
L’ultimo numero di aut aut è dedicato alla scuola, ovvero alla sua attuale trasformazione e ai problemi che la affliggono. Non ci siamo solo interrogati sul luogo della filosofia (che è sempre eccentrico e che corrisponde a una certa pratica dell’impossibile – “La scuola impossibile” è infatti il titolo del fascicolo, curato da Beatrice Bonato), ma anche sulle possibili e concrete forme di resistenza rispetto all’offensiva che viene portata contro le istituzioni della cultura e del sapere, sulle possibili e concrete forme di pratiche di rilancio di un sapere critico. Perché la posta in gioco della scuola, in fondo, è semplicemente questa: di fronte al disastro annunciato dell’università, la scuola è diventata la prima linea dello scontro tra chi – come noi – intende difendere e rilanciare un’idea di cultura come incarnazione una cittadinanza attiva, democratica, e chi, dall’altra parte, intende il sapere come funzionale alla difesa, al consolidamento e all’espansione di interessi, potere e dominio. Pier Aldo Rovatti, Beatrice Bonato ed io ne abbiamo discusso pubblicamente sabato 11 maggio a Udine, all’interno della manifestazione culturale Vicino/lontano.

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