È un’ipotesi. Putin si rende conto che Damasco è indifendibile. Così lascia che l’agonia dell’antico alleato faccia il suo decorso. È un’ipotesi, si diceva. Non tanto irrealistica però. Le ragioni del perché il Cremlino possa improvvisamente virare di rotta ci sono. Può rendersi conto che non è il momento di polemizzare con gli Stati Uniti. Chi parla di un nuovo scontro al vertice in Siria lo fa perché pensa che le guerre siano ancora il sale della geopolitica. Ma le guerre le si combatte per soldi, materie prime e ideologia. E nessuno di questi tre elementi è presente sul suolo siriano. L’Islam salafita non è ideologia. È religione. Anzi nemmeno.
Si immagini quindi che la Russia decida che non ha più risorse e pazienza per gestire una crisi mediorientale che non si sa dove andrebbe a parare. Fatti due conti, Putin ammette che per difendere l’Iran, non è necessario conservare Damasco. E soprattutto che è meglio tenersi buoni gli israeliani – pardon, gli emigrati russi (tantissimi) che in Israele si spacciano per ebrei – con cui i rapporti saranno sempre importanti.
Putin potrebbe prendere esempio dai cinesi, che di Siria non ne hanno voluto sentire parlare fin da subito. Hanno intuito il ginepraio diplomatico, la carneficina e la distruzione del Paese. E ora attendono che la festa finisca per arrivare con dollari e ruspe e mettere loro le cose a posto. Diciamo che Putin faccia questo ragionamento.
La plausibilità ha solo un punto debole. Ed è tattico. Dove va la flotta del Mediterraneo? La base di Tartus è il solo tarlo che lascia insonne Putin. Quell’approdo di memoria sovietica, nato da un accordo d’acciaio tra Breznev e Assad padre, certamente è importante. Perché permette a Mosca di avere una proiezione navale nel Mediterraneo.
Dottrina: la Russia è una potenza terrestre, con un’irrisolvibile sindrome di accerchiamento. Era così con gli zar. Altrettanto ai tempi del Pcus. Putin si è portato avanti la malattia. Il Paese più grande al mondo pensa di essere circondato e non riesce a sopportare l’idea di non affacciarsi su un mare caldo. Storia: ecco perché Pietro il Grande fonda Pietroburgo sul Baltico e Nicola I provoca la guerra di Crimea. Roba di Sette e Ottocento.
Ma Tartus no, non è cosa vecchia. Negli anni Settanta l’Urss vuole avere voce in capitolo sul versante mediorientale. Gli riesce male, tra i tanti, con l’Egitto di Nasser, lo Yemen del sud e la resistenza palestinese. Male perché gli arabi ingannano l’alleato che viene dal freddo. Si fanno regalare armi, consulenza tecnologica, oltre che girare un bel po’ di soldi. Poi però ciascuno va per la propria strada. Gabbato il Cremlino, quindi.
Con Hafez el-Assad le cose vanno diversamente. Vuoi perché Assad lo chiamano “la volpe di Damasco” mica per nulla. Vuoi perché in Siria il regime è tosto, ma tutto sommato laico, socialisteggiante e ha bisogno di un alleato forte. Sta di fatto che la Quinta flotta sovietica arriva a Tartus.
La base però fin da subito torna comoda più ai siriani, che si vantano di avere ospiti i russi, che a questi ultimi. In piena guerra fredda una base navale piazzata in mezzo al braciere mediorientale è di facciata. Fa tremare governi e diplomazie, ma lascia imperturbabili gli ammiragli. Se il disastro non c’è stato a Cuba nel ’62, difficile che scoppiasse altrove. Peraltro, questione tecnica oltremodo attuale, l’approdo di Tartus non ha mai avuto le facilities per ospitare nessuna delle navi della marina militare russa di lunghezza superiore ai 100 metri. Di che stiamo a parlare quindi? Il porto siriano è servito e serve ai russi per dialogare con arabi e israeliani mostrando i muscoli. Dialogare, non litigare.
Tartus: uno scalo in un mare caldo e in un quadrante in cui si vuole comunque dire la propria. Per Putin risolta l’ansia di accerchiamento.
Se però salta la Siria, salta anche questo schema.
Che fare? Trovare un’alternativa nei Paesi arabi e nordafricani è complesso. Al momento. E allora perché non copiare di nuovo gli zar? Vale a dire bussare a quelli che condividono con i russi alfabeto, cristianesimo ortodosso ed etnia. O almeno uno dei tre elementi. Nei Balcani gli amici di Mosca sono tanti. Così come a Cipro e in Grecia. Questo a livello diplomatico.
Da un punto di vista militare, Tartus fa quasi rima con Syros. Bisillabe entrambe. Syros è «un’isoletta del mar Egeo che non conta un cazzo», citazione da Mediterraneo di Salvatores. Ma che è piazzata perfettamente per soddisfare i capricci dell’ammiraglio Putin. È fuori dai Dardanelli. Anzi, lì di fronte. Quindi anche meglio se si vuole che la Turchia si indispettisca. Resta abbastanza a est da poter essere spacciata come base levantina, quindi pseudomediorientale. E infine ha un precedente poco chiaro di movimenti navali russi.
Certo, la Grecia è nella Nato. Mentre Cipro no. Ma qui ci sono inglesi e turchi. Meglio evitare. In ogni caso questo è davvero un problema? Se a Bruxelles – sede dell’Ue e dell’Alleanza atlantica – si rendessero conto che, per chiudere il dossier Siria e salvare Atene con i rubli, come è stato fatto a Cipro, val bene una base, l’accordo forse si farebbe subito. E allora addio Assad. E fine del secondo round dello scontro Russia-Usa che, detto inter nos, regge poco.
Ma tutto questo è teoria. O fanta tale. La cronaca riporta le dichiarazioni di Assad, che dice di aver già ricevuto una partita di missili S-300. Mentre la stampa russa, che di Assad dovrebbe essere amica, rettifica. Magari non si saprà mai la verità. Magari si tirerà per le lunghe la faccenda, onde evitare che Usa e Israele se la prendano davvero a male. In ogni caso, la cronaca è più assurda della fantasia.