In Afghanistan, il contingente italiano è dispiegato in tre grandi basi: Herat, Farah e Bala Baluk. A queste si sommano presidi minori finalizzati a una presenza più capillare sul territorio. La Difesa, com’è ovvio, non fornisce i numeri precisi di uomini, mezzi e altro materiale di supporto. Però sul sito ministeriale, chi vuole può fare indigestione di tecnicismi, è liberissimo. Prego!
D’altra parte, non è necessario toccare con mano le sabbie afgana per capire quanto articolato sia il nostro contingente laggiù. Andare in Afghanistan è istruttivo. Ma certe cose le si intuiscono già da casa. Il military made in Italy a Herat e dintorni è tanto. Dagli attendamenti ai moduli abitativi, dalle cucine alla strumentazione strettamente militare. In dodici anni di attività, gli italiani in Afghanistan hanno messo le radici. Com’è naturale che sia. Se sbatti un soldato in un buco nel deserto per sei mesi, gli devi dare da mangiare, bere e altro. Sennò sbrocca. Nel frattempo lui si adatta. Che ne so? Appende la foto della fidanzata vicino al letto, si costruisce uno scaffale per poggiare le sue poche cose. Un soldato in missione fa quello che un qualsiasi essere umano farebbe venendo in contatto con un mondo nuovo: lo esplora e lo regola a propria necessità.
Ora, con il 53esimo caduto sulle spalle – ci vuole sempre questo per scuoterci – c’è chi pensa a un anticipo del ritiro. Sai che novità! Fino a un paio di anni fa, gli stessi votavano contro il rifinanziamento della missione. Ora che la missione è in fase di dismissione, si pretende di chiudere tutto come se ci fosse un interruttore. On-Off. E ci siamo tolti una seccatura.
In nome della pace – la stessa per la quale l’Italia ha lasciato sul campo 53 suoi cittadini – si pretende di sgombrare. Tanto la Nato è incapace di rimettere a posto l’Afghanistan. Quella guerra, per alcuni proprio dalla Nato provocata, possono gestirsela in autonomia gli afgani stessi. Vabbé, queste sono cose che si dicono.
La politica, almeno in Italia, è sempre più dichiarazioni di stomaco, invece che argomentazioni e riflessioni. Meglio stupire chi ti ascolta, piuttosto che farlo ragionare.
Ritirarsi prima del tempo non è solo una questione di pacta servanda sunt. È latino. Un modo elegante per dire che gli accordi vanno rispettati. E non si capisce perché gli accordi con gli elettori siano sacri – come Sel, M5s e altri sottolineano – mentre quelli con gli alleati valgano meno di zero. Anche qui: vabbé. Ognuno ha le proprie convinzioni. E, in dodici anni, si è visto che al compromesso non si vuole arrivare.
Ragioniamo allora da un punto di vista tecnico. La matassa di presenza militare italiana in Afghanistan è in via di smantellamento. Entro la fine del 2014 tutti a casa. O meglio, non tutti. La maggior parte. Chi resterà dovrà insegnare agli afgani come si gestisce la sicurezza nazionale senza l’aiuto di papà e mamma occidentali. In pratica stiamo togliendo le rotelline alla bici di Karzai. Speriamo che impari a pedalare da solo il più velocemente possibile.
D’altra parte, quando una singola persona – non tanto un’intera famiglia – decide di traslocare da una casa dove ha abitato per dieci anni, è impossibile che faccia tutto in una nottata. Scatoloni, materiale per imballaggio, mobili da smontare, roba vecchia che viene fuori e che va buttata, furgoni da affittare, magari anche una gru perché nell’ascensore non ci sta tutto e col cavolo che si porta giù tutto a piedi. Due giorni? Ma anche una settimana, dai! Questo per andare via. Mettere a posto casa nuova, poi, non ha tempo.
Lo stesso è nel Paese degli aquiloni – che nomi assurdi riusciamo a inventarci noi giornalisti! Ammesso anche che si decida di andar via domani, scordiamocelo che tempo 48 ore e l’ultimo caporale chiude la porta. È un bel sogno che si prenda e ci si levi di torno in un attimo. Lì c’è da catalogare, imballare e smobilitare un intero apparato di guerra. Ops! Mi è sfuggita la parolina all’indice. E se sfiga vuole che ci si dimentichi anche un solo proiettile, sai che casino che fanno talebani, mujaheddin narcotrafficanti e tanti altri per pigliarselo?
Herat, Farah e Bala Baluk. Più enne postazioni avanzate, di diretto controllo italiano, oppure in condivisione con gli afgani. Questo da parte nostra. Poi ci sono americani, inglesi, spagnoli, ecc. ecc. ecc. Fatti due conti, ci vuole un anno, forse anche uno e mezzo per incartare tutto per bene e andarsene? Diciamo la fine del 2014? E allora vedi che i tempi coincidono. Si è detto di partire per la fine di quell’anno? Se decidessimo di andarcene in anticipo, comunque i cancelli delle basi non verrebbero chiusi prima. Un anno e mezzo per l’exit strategy. Altrettanto per il trasloco.
Ma questo è un calcolo pratico. E la politica ‘ste robe non le considera. Sono troppo operative…
14 Giugno 2013