Una sceneggiatura già letta. Un film già visto. Da una parte il ‘buono’: Sam Rainsy, accompagnato e sostenuto da Kem Sokha. Insieme hanno dato vita nel 2012 alla coalizione di salvataggio nazionale (Cambodia National Rescue Party – CNRP). Una coalizione nata dall’unione dell’omonimo partito di Rainsy–rientrato in Cambogia ai primi di luglio dopo quasi tre anni di esilio volontario in Francia–e lo Human Rights Party (HRP), partito fondato nel 2007 da Sokha. Entrambe con un passato tra le fila del partito reale del FUNCINPEC (Front Uni National pour un Cambodge Indépendant, Neutre, Pacifique, et Coopératif).
Rainsy, già ministro delle finanze dal 1992 al 1994, era stato infatti accusato di incitamento razziale e distruzione di proprietà privata nel 2010. Dopo il ritiro dell’immunità parlamentare e un mandato d’arresto, a settembre di tre anni fa era arrivata la condanna a dieci anni in contumacia. “Una sentenza politica”, aveva denunciato Rainsy dalla residenza parigina dove si era rifugiato, preferita quindi al carcere in patria. All’inizio di luglio il perdono reale. Il 28 il voto nazionale. Dalle urne, nonostante i proclami della vigilia, a vincere è di nuovo lui: il ‘cattivo’ e attuale primo ministro Hun Sen che, dal 1998, insieme ai quadri del Cambodian People’s Party (CPP) decide e amministra il Regno di Cambogia come fosse una grande famiglia allargata. Un primo ministro che negli anni ha saputo tenere le redini di una democrazia giovane e caratterizzata da una forte crescita economica, mantenendo nelle zone rurali il gran numero di voti che lo ha confermato anche in questa tornata elettorale. Un voto preceduto da una campagna elettorale relativamente pacifica, a differenza del passato, ma seguito da accuse di brogli e denunce da parte dell’opposizione, forte invece dell’elettorato urbano, soprattutto nella capitale Phnom Penh, che da sola conta quasi 2,5 milioni di abitanti su un totale di 15 milioni.
Questa volta, però, a differenza del 2008, la rappresentanza del CPP nell’Assemblea Nazionale passa da 90 a 68 seggi su un totale di 123. Lasciando quindi all’opposizione i 55 seggi restanti, quasi il doppio di cinque anni. Un risultato fortemente contestato da Sam Rainsy, che nella conferenza stampa tenuta due giorni dopo il voto, non risparmia accuse di brogli, così come era avvenuto nel luglio del 2008. “Il CNRP non riconosce il risultato annunciato dal CPP o comunque i risultati simili mostrati dalla Commissione nazionale elettorale”, ha affermato Rainsy, secondo il quale, “il 15 per cento degli elettori—tra 1,2 e 1,3 milioni di persone—non ha potuto esprimere la propria preferenza perchè i loro nomi non erano prsenti nelle liste elettorali”. Stesso problema del 2008, nonostante allora come oggi fossero presenti osservatori internazionali e organizzazioni non governative a monitorare il voto.
Secondo Transparency International, organizzazione non governativa, il CPP si sarebbe assicurato il 48,5 per cento dei voti con il 44,4 per cento al CNRP. Una corsa a due quindi, in un Paese che fino ad oggi ha sempre visto nella corsa al voto la partecipazione di un alto numero di partiti e coalizioni. Una vita politica che quindi si polarizza e propone poche alternative ai quasi 15 milioni di cambogiani, che sembra ridursi all’antagonismo tra il ‘buono’ e il ‘cattivo’.
La domanda che analisti e osservatori si pongono in questo momento è se veramente questo voto segni o meno una svolta nella vita politica del Regno di Cambogia. Se questo voto riuscirà a portare un reale cambiamento all’interno del Paese. Soprattutto, però, resta da capire le reali proposte da parte di un’opposizione legata ad una media borghesia nascente e agli ambiti intellettuali di un Paese ancora alla ricerca di una sua identità. Un’opposizione che è riuscita a polarizzare uno scontro a forza di slogan populisti che per nulla si distinguono da quelli del CPP di Hun Sen, sempre più padre di un Paese, che dovrà decidere se rimanere orfano o no.