Sono sempre più sorpreso di come dichiarazioni, assurde, di una persona come Giovanni Allevi siano in grado di svegliare il peggio dello snobismo intellettuale che inonda da decenni il mondo della musica classica. «Beethoven non ha ritmo» è ovviamente una dichiarazione senza senso, inutile proprio parlarne. Invece leggo colate infinite d’indignazione, fiumi di articoli e commenti offesi (e spesso offensivi). Ma al di là della polemica, nella difesa emerge una triste verità: la classica viene considerata dai suoi stessi gran sacerdoti come un sapere cabalistico, destinato a pochi eletti, impossibile da capire per chi non è già stato iniziato al rito. E vai di «com’era bello allora, quando la gente capiva» e via borbottando. E così il successo di Allevi – quello che “offende” Uto Ughi, come dichiarato in un’intervista a La Stampa, per intenderci – viene descritto come il dilagare di una eresia.
Giovanni Allevi (Ascoli Piceno, 9 aprile 1969)
Permettetemi di dire che questa visione è assolutamente priva di prospettiva nel mondo di oggi, oltre a essere una mitizzazione errata del passato. Per quanto riguarda l’opera, non è assolutamente vero che tutto il pubblico che ha fatto il successo di Verdi o di Rossini sia composto da persone molto colte, né che andassero a teatro per assaporare ogni goccia di quel che il compositore aveva scritto. Anzi: i teatri erano luoghi dove assaporare buon cibo, fare conversazione, giocare a carte, oltre ad ascoltare ogni tanto quello che succedeva sul palco. Per la musica sinfonica, invece, il pubblico era composto prevalentemente dalle ristrette cerchie di aristocratici che – occupando così il loro ozio – avevano tempo e voglia di studiare qualche strumento. E anche lì, il loro parere era fondamentale per il successo dell’artista: se a un principe un po’ grossolano e poco raffinato la musica di un compositore di corte (come Haydn o Mozart) non piaceva, quello veniva mandato via. Mode e richieste delle società hanno da sempre pesato sui compositori, e il loro successo personale ha determinato la fortuna delle loro opere.
È stato il famoso “l’art pour l’art” ottocentesco – anch’esso frutto di un’epoca – a cambiare tutto e creare il mito dell’artista geniale ma incompreso. In qualche decennio ciò ha determinato lo scollamento che oggi, quasi duecento anni dopo, viviamo con angoscia: chi compone musica incontra una enorme difficoltà a farsi apprezzare, e per giunta da una piccola fetta di pubblico “colto” che continua invece – imperterrito malgrado la sua preparazione – ad ascoltare quasi unicamente musica composta prima che lo scollamento fosse totale, per intenderci nella prima metà del secolo scorso.
La stragrande maggioranza invece – notiamo bene, un numero infinitamente superiore a quello di duecento anni fa grazie alla democratizzazione del sapere, al conseguente innalzamento del livello culturale medio, e all’avvento dei media – si è data a diversi generi esplosi letteralmente da cent’anni a questa parte: quello che i “colti” chiamano la musica leggera, quasi sempre snobbata e derisa dai custodi dell’ortodossia dei conservatori.
Ora la domanda che io pongo a tutti quelli che sputano così ferocemente su Allevi è: a cosa potrà mai servire la musica nella nostra società? E mi chiedo anche: anche se voleste rispondere come nell’Ottocento «a nulla di concreto», siamo sicuri che sia davvero così? Non state semplicemente considerato il punto di vista di chi suona o compone e non di chi ascolta?
Personalmente penso che la musica abbia un’importanza enorme per la società. Un linguista direbbe che più esteso è il vocabolario di una persona, più quella persona è in grado di pensare. La musica, per me, è l’espressione di quanto le parole – anche le più precise e raffinate – non riescono a cogliere. La musica va oltre le parole e la concretezza, la musica esprime quanto l’essere umano abbia di più profondo e unico nel mondo animale: la sua anima. E più la musica è complessa, più profondo si riesce ad andare.
Ecco il punto: per me, il musicista dovrebbe dedicare la sua vita a trasmettere la musica agli altri, aiutandoli con generosità ad accedere a questa modalità espressiva. Ma noi musicisti classici oramai troppo spesso manchiamo di generosità. E ci stupiamo che le persone vadano ad ascoltare altro, magari meno interessante, magari più facile, ma certamente indirizzato a loro. Noi moriremo della nostra superbia, ritenendo di essere superiori ma senza riuscire a dimostrarlo “sul campo”, ottenendo successo presso il pubblico.
Invece se vogliamo vivere, e offrire un futuro alla musica che ci hanno affidato i più grandi compositori della storia, dobbiamo combattere. Difendere il nostro repertorio, la nostra storia. Ma non insultando chi fa semplicemente il proprio mestiere, bensì facendo innamorare il pubblico di Beethoven. Non tocca alla scuola, allo Stato o a chicchessia. Tocca a noi che abbiamo dedicato decenni allo studio meticoloso di questa arte, e che viviamo di questa meravigliosa professione che è trasmettere cultura ed emozioni agli altri.
Ps: un appunto sulla parola “marketing” tanto vituperata tra i “classicisti”. La mercificazione della musica è cosa ovvia, perché appartiene al modo di funzionare del nostro mondo. Il marketing non è tuttavia il diavolo. È uno strumento, e come tutti gli strumenti è neutrale. Dobbiamo conoscerlo per capire come usarlo. Karajan ci è riuscito molto bene a suo tempo. Perché invece di criticare, non proviamo anche noi a capire chi è il nostro “target”, e come possiamo parlargli per arrivare al nostro fine: fargli amare Beethoven, magari più di Allevi?
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