Ansie e disillusioni prima di sfiorare la vetta del successo. La storia del papà di “Scream”, “So Cosa Hai Fatto”, “Dawson’s Creek”, “The Vampire Diaries” e “The Following”
Il tipico scrittore consumato sin da piccolo dal fuoco della scrittura. Un’ambizione che sta stretta alla comunità di pescatori di Oriental, North Carolina, dove tutti vivono alla giornata, schernendo chi auspica un futuro non migliore, non più brillante. Solo diverso.
A dargli man forte è mamma Faye, che durante le assenze in mare di papà Wade, nel tepore del salotto di casa, sciorina storie fantasiose, instillandogli la capacità di trasformare la più futile circostanza in un racconto appassionante. La dolce mamma che racimola fior di quattrini per acquistargli a dieci anni la prima macchina da scrivere, la stessa che avrebbe usato per le prime bozze di sceneggiatura.
Non è un’adolescenza placida, quella di Kevin Williamson, classe 1965. Da sempre deriso, viene guardato come il ragazzino svaporato che ambisce a chissà quale meta, ma che tutti sanno finirà a grattare il sudiciume di bagni pubblici.
Williamson serra i pugni, alle critiche non bada granché. Solo al liceo, da schivo outsider per i rumors circa la sua omosessualità, la passione viene scalfita dalla docente di letteratura: ogni qualvolta c’è da svolgere un tema, questa lo umilia davanti ai compagni per la “sua inettitudine, l’impossibilità di formulare frasi ben assemblate e gli strafalcioni grammaticali”. Al ricordo, racconta, lo prende ancora un tremore: impossibile dimenticare quegli occhi fiammeggianti con cui gli sputava tutto il suo disprezzo, la ferma convinzione che non avrebbe mai combinato nulla. Sempre tra i banchi scolastici si consuma un episodio che lo segna indelebilmente: legge ai compagni un racconto assegnato come compito a casa, quando nel bel mezzo della storia viene interrotto dall’insegnante che lo spedisce a posto con una “F” (insufficienza grave), accompagnata da critiche più aspre e meno costruttive del solito.
Williamson, turbato nel profondo, accantona le velleità letterarie. Definitivamente, pensa.
Dopo il liceo, punta su cinema e teatro, frequentando la East Carolina University per via delle depauperate finanze in cui navigano i genitori. Ma di tornare a impugnare carta e penna neanche a parlarne.
Solo dopo un tentativo con la recitazione, nella soap “Another World” (interpretava Dougie), decide di tornare sui banchi, alla University of California, dove partecipa a corsi di sceneggiatura e scrittura creativa.
Ancora memore dei commenti irosi della prof, a dieci anni dai fatti, stende di getto il primissimo script, come per strappare un cerotto da una ferita che si crede rimarginata. Non è un caso che per esorcizzare lo spettro dell’insegnante ne fa la protagonista della sua storia. Una al sangue, com’è caratteristico del suo stile: un gruppo di studenti, stanco delle insufficienze e i tormenti, rapisce la docente allo scopo di ucciderla. Il titolo, che sicuramente accenderà qualche ricordo, è “Killing Mrs. Tingle”, black-comedy acquistata nel 1994 dalla Dimension Films e convertita in lungometraggio nel 1999, con sommo stupore-gaudio-eccitazione dell’autore.
Soverchiato lo scoglio della vendita del primo script, tuttavia, Williamson torna a trincerarsi nello sconforto. Subentrano le ansie per un nuovo racconto e, pressato da debiti e bollette, si rimbocca le maniche coi lavori più disparati, dal cameriere al barman. Tutto questo finché nel 1995 soggiornando nell’abitazione losangelina di un amico non viene baciato dalla ritrovata ispirazione. Poltrendo davanti alla tv, incappa in un documentario su Danny Rolling, il serial killer che nell’agosto 1990 aveva massacrato cinque studenti universitari in Florida, nei pressi di Gainesville.
Una vicenda che si sedimenta nell’inconscio e su cui si arrovella, avvertendo il pizzicore di una nuova storia che preme per venire alla luce. Quella notte, suggestionato dal programma, la trascorre in bianco scacciando i timori di incursioni omicide, ma i successivi tre giorni si segrega in uno stanzino a buttare giù soggetto e sceneggiatura di “Scream”, l’horror adolescenziale che avrebbe ridefinito il genere con robuste pennellate di humor nero e citazioni a go-go. L’anno seguente, nel 1996, la pellicola irrompe nelle sale facendo breccia nei cuori di pubblico e critica, e per Williamson arriva una fitta pioggia di complimenti da parte del direttore della Miramax Film, che lo definisce senza mezzi termini “un genio”.
Nel 1997, la rete televisiva “The WB” gli commissiona la produzione di una serie semi-autobiografica, “Dawson’s Creek”, dove mette in scena i dilemmi della sua adolescenza, l’amore per il cinema che sconfina nell’ossessione e l’amicizia di una strettissima cerchia di coetanei. Il telefilm gli offre l’occasione di fare coming out, dichiarando pubblicamente la sua omosessualità, in simultanea col personaggio di Jack (interpretato da Kerr Smith). Una serie che gli vale l’affetto incondizionato e la fama presso orde di adolescenti in tutto il Globo, che si rispecchiano nello stile e la sua sensibilità, ergendolo a firma-simbolo degli anni ’90.
Parallelamente, torna a brillare sul big screen con “So Cosa Hai Fatto” (“I Know What You Did Last Summer”), tratto dall’omonimo thriller letterario di Lois Duncan, che gli frutta i giudizi entusiastici della critica, incassi stratosferici, nonché altri due installment.
Il 1998 è l’anno dell’occasione ghiotta: la produzione di “Halloween: 20 anni dopo”, penultimo capitolo della saga di John Carpenter per cui smaniava da piccolo, quando nel polveroso cinema di Aransas Pass, in Texas, dove aveva trascorso parte dell’infanzia, se ne sorbiva anche sei visioni consecutive, dalla mattina alla sera. Dopodiché, fatta incetta di flop televisivi (“Wasteland”, “Glory Days”, “Hidden Palms” e “The Secret Circle”), riemerge in tutto il suo splendore dapprima col teen-horror “The Vampire Diaries”, trasposto dai romanzi di Lisa Jane Smith, poi con “The Following”, il thriller che vanta nomi di spicco del firmamento hollywoodiano quali Kevin Bacon e James Purefoy. Un murder drama fecondato alla veneranda età di 7 anni, quando in visita al museo di Richmond tributato a Edgar Allan Poe resta folgorato dalla poesia “Il Corvo”, trascritta in rosso sangue sulle pareti delle sale. Poesia che il serial killer Joe Carroll avrebbe masticato in continuazione, teso a ricalcare le orme del maestro letterario.
Kathe Tibbs e Biff Peterson, biografi che conoscono lo sceneggiatore di persona per via di “They Don’t Wanna Wait: The Stars of Dawson’s Creek” (ECW Press, 1999), summa delle esperienze di cast tecnico e artistico del teendrama, lo dipingono come una persona scostante, poco propensa a esporsi e poco abile nei rapporti interpersonali e le pubbliche relazioni: nel volume accennano a interviste dei tempi di “Killing Mrs. Tingle”, in cui Williamson già spiattellava gli screzi col fidanzato. Non solo, menzionano anche la mancata rivalsa: la fatidica docente si spegne prima che possa sbatterle i successi sotto il naso. Il che, in fin dei conti, ha i suoi risvolti positivi: avrebbe potuto arrogarsi il merito di averlo spronato per benino, e poi chissà, Williamson in tutta risposta avrebbe sguinzagliato la combriccola di killer.