In questi giorni di dibattito intorno alla decadenza del senatore Berlusconi, all’interno del PD prosegue un confronto serrato: c’è chi, come il “saggio” Violante apre alla possibilità di ricorrere al parere della Consulta sull’applicabilità della legge Severino.
Noi siamo una forza legalitaria. La legalità comprende il diritto di difesa e impone di ascoltare le ragioni dell’accusato. La Corte Costituzionale ha ritenuto che il procedimento davanti alla Giunta e’ di carattere giurisdizionale. Quindi la Giunta, se ritenesse che ci fossero i presupposti, potrebbe sollevare l’eccezione davanti alla Corte. Ma questa non sarebbe dilazione; sarebbe applicazione della Costituzione.
Ci sono, poi, le variegate reazioni del resto dell’establishment PD, ora più che mai orientato a non concedere nulla al leader del PDL. Epifani, mentre Violante “apre” sul Corriere, detta la linea del partito su Repubblica: «Voteremo sì alla decadenza». In realtà, che l’obiezione della costituzionalità della legge Severino – avanzata da esponenti bipartisan come Onida, Capotosti, D’Onofrio – sia curiosamente fuori tempo lo nota anche Mario Monti sul Foglio di oggi: «La legge Severino – rimarca Monti – è stata votata a larghissima maggioranza».
Il problema, semmai, è un altro, di più ampio respiro e più radicato nella storia recente del centrosinistra italiano. Riguarda l’agenda riformista mutilata e si chiama, semplificando, antiberlusconismo. Prendiamo il tema della giustizia: come in una versione inconsapevolmente realizzata della celebre ballata di Gaber, riformare la giustizia italiana è diventata una cosa di destra. Perché? Perché incidentalmente è ciò di cui da anni parla Berlusconi (senza essersi mai mosso in tal senso – cosa che, di per sé, dovrebbe già far riflettere).
Simona Bonfante su Europa oggi parla proprio di questo tema, snocciolando i motivi per cui, al contrario, intervenire sugli scompensi e le storture del settore giudiziario sarebbe cosa buona e giusta, dal momento che «il malfunzionamento della giustizia è tra le voci indicate in cima alla lista dei fattori che scoraggiano gli investimenti in Italia».
Parlare di giustizia è imbarazzante per il Pd. Difendere un sistema castale debordante, discrezionale e ingiusto è stata una scelta politicamente invereconda, più subita che perseguita, ma pur sempre coltivata da vent’anni almeno con la lucidità prospettica di una zanzara attratta dal sangue di un umano con il baygon in mano. Non avrebbe dovuto risultare così difficile, invece, per il Pd cogliere il bisogno reale di giustizia giusta che c’è e viene dalla “parte migliore del paese”.
E tuttavia, riuscite a immaginare nulla di più ipocrita, retorico ed irritante della proposta avanzata alle ultime elezioni – Il programma fondamentale del partito democratico per la giustizia si chiama Costituzione?
Dello stesso avviso è Guido Vitiello, che sul Foglio di qualche giorno fa tirava la volata ai referendum radicali pro-separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati.
I filistei, per ignoranza o più spesso per calcolata ipocrisia, si trincerano dietro frasi destinate a riempire gli sciocchezzai del futuro: “La legge è uguale per tutti, i magistrati fanno solo il loro lavoro”; il che è vero, se non fosse che il lavoro del magistrato ha confini d’arbitrio così indeterminati da comprendere la facoltà di decidere chi è più o meno uguale davanti alla legge.
In altre parole, l’obbligatorietà dell’azione penale e i confini fumosi dell’arbitrarietà con cui un giudice è in grado di scegliere le velocità e le carte di un processo sono problemi oggettivi – lo dicono i dati economici, se non vogliamo affidarci alla logica più stringente. Eppure, la più grande preoccupazione di un partito non più soltanto giustizialista, ma semplicemente plagiato dalle continue sconfitte – pur spesso autoprocurate, è bene ricordarlo – a vantaggio del senatore di Arcore è mostrarsi quanto più distante dai temi fatti propri (a sproposito) dalla sua parte politica. Il resto, nelle intenzioni, dovrebbe venire da sé. La storia recente, però, insegna ai democratici che questa strategia non paga.
Per tornare alla destra e alla sinistra bonariamente canzonate da Gaber, anche parlare di soluzioni per altri macro-temi (quali il lavoro, il fisco, la scuola) poco ortodosse per gli inamovibili standard della sinistra storica è ormai essere automaticamente al di là delle barricate, collusi col Male e – alla peggio – schiavi del liberismo, nelle sue più fantasiose accezioni. Ce lo ricordano tutti i giorni membri illustri della «ditta PD» e con loro Gad Lerner, Pippo Civati, Asor Rosa, Scanzi, Zagrebelsky e tutto il codazzo di sedicenti puristi integerrimi, corsivisti di Micromega, Popoli Viola della prima ora ed esegeti improvvisati, sempre pronti ad additare derive destrorse e rincorse verso il centro foriere di sventura.
Io, nel mio piccolo, berlusconiano non lo sono mai stato e – a Dio piacendo – non lo sarò mai. Con gli elettori del PDL ho soltanto una grande collezione di zuffe e reciproche ingiurie. Eppure vorrei una giustizia più corretta e funzionale, una scuola più competitiva e un mondo del lavoro più aperto. Avere il terrore di “fare ciò che piace a B.”, sentirsi in dovere di imperniare i propri dibattiti e le proprie proposte intorno a lui, non vedere altro che la sua espressione beffarda fra i numerosi problemi del Paese vuol dire riconoscergli la più duratura delle vittorie e, sotto sotto, essere berlusconiani tanto quanto i suoi scherani più fidati. Chissà se lo capiremo mai.