La Petite MortQuando Albuquerque diventò Twin Peaks

Sotto la cotonatura stava la rivoluzione. Otto aprile del 1990 per gli americani, gennaio successivo in Italia, va in onda lo show destinato ricombinare geneticamente la serialità televisiva. Pri...

Sotto la cotonatura stava la rivoluzione.

Otto aprile del 1990 per gli americani, gennaio successivo in Italia, va in onda lo show destinato ricombinare geneticamente la serialità televisiva. Prima c’è Star Trek e dopo LOST. Una sola domanda, chi abbia ucciso Laura Palmer, il più classico dei McGuffin hitchcockiani, innesca l’azione e fornisce la scusa per spiare vite insignificanti in un paesino montano di frontiera, a due passi dal Canada. Due sole stagioni, la seconda trasmessa in contemporanea da ABC e Canale 5, roba che per qualcosa di paragonabile ci è toccato aspettare Sky con The Walking Dead, insieme a quattro lustri buoni. Ventitré anni, a oggi, per un bilancio che muta ogni volta che si riaccende il videregistratore.

Le rughe ci sono, e piuttosto evidenti. Più che delle capigliature e dei jeans chiarissimi, tornati a galla con l’andamento carsico delle mode, la colpa è del ritmo: sotto quest’aspetto Twin Peaks è un prodotto tradizionale, ormai superato, nella sovrabbondanza di scene girate in interni, nella rotazione a volte telefonata fra sequenze e nel gusto tradizionale e abusato per lo sketch, la sottolineatura dell’intermezzo comico. Eppure, scavalcando i limiti, rimane uno show d’incredibile potenza. Esemplare, addirittura, nella sua capacità di farsi prototipo per una valanga di epigoni, impartendo due fondamentali lezioni.

La prima, che ha guidato tanta serialità, consiste nella tendenziale esplosione di ogni linearità narrativa. Twin Peaks è una matassa di personaggi e situazioni portate avanti per essere lasciare irrisolte, suggestioni reiterate che non diventano mai centrali, contraddizioni e momenti fini a se stessi, a volte ridicoli, giustificati solo dalla logica del loro potere di seduzione. Tutti elementi inediti, marchi che disegnano una particolare visione del mondo e della tv, una gestione originale del confine fra realtà e racconto, riconducibile alla tradizionale categoria di autore secondo la definizione dei Chaiers. Quasi un attestato di paternità per David Lynch, che può reclamare il titolo di fondatore della cult-testualità televisiva. E di aver tracciato il primo solco sulla strada che porta direttamente a LOST, alla sua capacità di rinegoziare costantemente il patto d’incredulità con lo spettatore grazie a cui tutto diventa plausibile, persino che una vecchia ruota possa spostare isole e far collassare realtà parallele.

Eppure, come ha notato non prima ma meglio di tutti David Foster Wallace, c’è di più. Twin Peaks non è solo autoriale nella maniera in cui è riuscito a esserlo X-Files. Twin Peaks è inevitabilmente lynchiano, nella misura in cui l’aggettivo non è definibile che ostensivamente. Bisogna vederlo per capirlo. Per delinearlo come cosa inquietante, mai vista, straniante e paurosa, folle al punto che sorprende come sia riuscito a diventare edibile per la tv generalista.
Questo, in sintesi, è ciò che lo rende attuale.

E per Foster Wallace il fascino misterico di Twin Peaks ha un’origine chiara: la sistematica confusione fra banalità e male, la compenetrazione costante delle loro misure assolute, il terribilmente comune e il terribilmente malvagio. L’espressione di un volto scosso dal pianto, da una smorfia o un grido di dolore. Trascurabili finché la camera non indugia per qualche attimo di troppo, ben più di quanto sarebbe richiesto, inquadrando e svelando l’inquietudine del quotidiano.

Per trovare una serie che abbia incorporato e sviluppato questa lezione bisogna viaggiare a sud del continente, giù al confine col Messico, dove si srotolano le vicende di Breaking Bad. C’è qualcosa di più lynchiano della processione di personaggi improbabili che circondano Jesse Pinkman, della determinazione d’improbabili killer che rinviano uccisioni alla parola d’ordine pollos, del chimico omosessuale Gale Botticher che canticchia Crapa Pelada del Quartetto Cetra con improbabile pronuncia lombarda lì, nel mezzo del New Mexico, chiuso nell’ordinata e mediocre stanza di un residence? E che dire della fissità infinita e ingiustificata delle espressioni facciali di Gus Fring, dei silenzi che chiudono puntate, della sordina che lascia senza parole dopo esplosioni di violenza assolute? Curioso, infine, che ad accendere il motore narrativo della serie sia un gesto banale eppure simbolico: la rasatura del cranio di Walter White, l’addio a una chioma a metà fra il twinpeaksiano e la bottega di paese, che trasforrma l’insegnante nel più banale dei geni criminali.

Qui non c’è niente di Twin Peaks, eppure c’è tutto. Siamo anni luce distanti dalle copie carbone di molte serie, partite da premesse identiche e sterili: un piccolo villaggio in cui tutti sembrano normali ma, sorpresa, non lo sono. Su queste basi c’è chi ha fallito clamorosamente, penso a Happy Town, e chi è riuscito a svicolare creando buoni prodotti come Les Revenants.

Nessuno, tuttavia, ha rapito l’essenza lynchiana come Vince Gillian. Che ha ricreato ad Albuquerque la Twin Peaks dei junkies dopo quasi un quarto di secolo, con più droga e meno sesso, meno magia e più chimica.

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