Proprio come a uno degli avanzi di galera dei suoi racconti e romanzi, anche a Giorgio Scerbanenco avevano appiccicato addosso un marchio, quello della “macchina per scrivere” perché, nella sua vita iniziata a Kiev nel 1911 e terminata a Milano nel 1969 aveva scritto migliaia di racconti, decine di romanzi e risposto a decine di migliaia di lettere di lettrici e lettori delle riviste di cui era direttore.
Non che non fosse vero, che Scerbanenco avesse una capacità di fuoco, intendo con la macchina da scrivere, degna di uno dei gangster che amava tratteggiare. Però questa storia delle etichette mi ha anche un po’ stufato.
Ricordo che quando presi in mano la prima volta un suo libro, I milanesi ammazzano al sabato, (in una edizione allegata a un mensile femminile) rimasi colpito dalla descrizione che si faceva di lui nella quarta e anche dopo, quando cercai ulteriori notizie su quell’autore che mi era piaciuto subito. Ebbi un sospetto: e cioè che la nomea di grafomane indefesso, quasi compulsivo di storie rischiava di sovrapporsi alla realtà.
Quale? Ma è semplice: Scerbanenco è senza dubbio uno dei maggiori scrittori italiani della nostro Novecento. E lo dico dopo aver letto non solo i romanzi, e non solo quelli polizieschi, che sono certamente impeccabili (soprattutto Venere privata e Traditori di tutti) ma anche i romanzi persino più commerciali come Europa molto amore, Ladro contro assassino, o La sabbia non ricorda e che hanno, nella loro perfezione, persino una debolezza calcolata: Scerbanenco scriveva per intrattenere, scriveva pensando al suo pubblico, un pubblico di lettori di rotocalchi che amava le storie e che forse immaginava che tutte le storie fossero un po’ come quelle raccontate dai giornali. E Scerbanenco, che aveva un rispetto quasi religioso per i lettori, scriveva quelle storie mimetizzandosi, come un segugio, nel linguaggio della sua epoca, nel linguaggio – dico – della narrativa della sua epoca: e dunque, tavolta, leggendolo oggi, si sente il bianco e nero, si sentono le dissolvenze implacabili sulla scene d’amore, si sentono certi tagli di capelli, certe stoffe, certi abiti, certe cromature delle automobili, certe scale delle ville, certi padri autoritari e generi idioti. Ma vanno bene: non macchiano mai la forza narrativa, la bellezza delle storie che inventa, la profondità e l’efficacia dei suoi personaggi.
Eppure c’è dell’altro: Scerbanenco raccontava la realtà in un modo che non ha nulla da invidiare a un Giovanni Arpino, a un Carlo Cassola, a un Paolo Volponi. La realtà della sua epoca: le città, le periferie desolate o i centri illuminati, le fabbriche, le vacanze di massa, l’alienazione del lavoro, i sogni effimeri suscitati dalla tv e dal cinema, le conseguenze di un paese uscito malamente da una guerra idiota, le ideologie fragili, la vuotezza culturale. Solo che lo faceva usando una narrativa di genere ma solo nell’involucro, perché poi era uno scrittore profondo come tutti gli altri che ancora oggi fanno studiare alle medie e nei licei e che talvolta sono meno incisivi e duraturi di lui, meno ispirati.
Ci ho pensato leggendolo ancora oggi ma non un romanzo, bensì nei racconti di Milano Calibro 9 (Garzanti), che avevo trascurato e dove invece si trovano alcuni assoluti capolavori come quello intitolato Ubbidire o morire. Non racconterò la trama che invito invece a leggere riga per riga (il libro si trova anche in E-book a un prezzo irrisorio) ma rifletto sul fatto che in questo racconto, superbamente scritto, c’è tutto: un carattere di cattivo, affidato a una donna, scolpito nella prima riga e mezza:
«Il suo nome era Matilde Vecchio e forse era stata sempre vecchia, e perciò quel nome le si addiceva». C’è la società e la realtà: una fabbrica di pesce surgelato in una non meglio identificata città veneta, descritta come forse, oggi, solo Pete Dexter saprebbe fare (un altro scrittore, però americano, che ci verranno a dire tra cinquantanni che era un genio mentre ora lo saccheggiano il cinema e la tv per farne pessime versioni destinate a un pubblico distratto). C’è la capacità, inoltre, di creare una tensione di thriller in pochissime pagine, con un dispositivo plottistico al di là della perfezione. E ciò lo si deve al co-protagonista della storia, Raimondo Orfeo, tratteggiato con una tale perizia da mettere i brividi.
Questo racconto mi pare l’esempio calzante di quanto affermavo più sopra: usando una veste solo apparentemente noir (una vestaglina molto trasparente) Scerbanenco riesce a scrivere una parabola della nostra epoca dove i rapporti – nel lavoro e non solo – sono rapporti di forza, giochi di potere, magari ben nascosti nella schermaglia del sesso. Però Scerbanenco fa di più: non disegna solo un quadro geniale, ma ribalta i ruoli e ci fa sentire tutti un po’ colpevoli, un tantino complici: ubbidire o morire.
Nel senso: anche ubbidire è una colpa. Non si creda di uscirne assolti.