Spiagge bianche e acque cristalline, hotel e resort di lusso. Quando si dice Zanzibar sono queste le prime immagini che prendono forma nell’immaginario collettivo europeo e, soprattutto, italiano. Nel 2012, la metà degli oltre 160mila turisti giunti su quest’isola dell’oceano Indiano è partita dal nostro Paese. Quello che è accaduto negli ultimi giorni potrebbe però contribuire a minare la reputazione dell’arcipelago come località tranquilla e sicura.
Mercoledì scorso, le diciottenni britanniche Kirstie Trup e Katie Gee, a Zanzibar da alcune settimane per un programma di volontariato, mentre prima di cena camminavano per le strade del centro di Stone Town, sono state colpite con dell’acido da due uomini in motorino. Le due giovani sono state curate e poi rimpatriate: lo shock è stato forte, ma, per loro fortuna, non dovrebbero aver riportato danni permanenti. Un gesto inedito che ha creato tante preoccupazioni. Negli stranieri in vacanza, nei tanti lavoratori del comparto turistico e nelle istituzioni locali che non possono permettersi di perdere, a causa dell’insicurezza, una delle principali fonti di sostentamento di una regione già poco sviluppata.
Poche sono invece, al momento, le spiegazioni per l’attacco. Le indagini sono in corso, ma, sui media locali, si parla solo di interrogatori e non di arresti o piste attendibili. Le due giovani non avrebbero avuto comportamenti inappropriati o offensivi. Secondo quanto riportato da uno dei compagni delle due, però, una delle ragazze, nei giorni precedenti l’assalto, sarebbe stata redarguita e schiaffeggiata da una donna del posto per essersi messa a cantare durante le ore di digiuno per il mese del Ramadan. Un indizio che ha portato diversi media a collegare il fattaccio con il crescente nazionalismo indipendentista nell’isola e con le tensioni create dal radicalismo islamico nella zona costiera della Tanzania. Una storia, con la S maiuscola, che comincia ancora prima che le due malcapitate inglesi fossero nate.
Zanzibar ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna esattamente cinquant’anni fa, diventando una monarchia costituzionale, governata dall’élite di origine araba. Nel 1964, un colpo di stato della maggioranza nera fece oltre 17mila vittime e portò l’isola a fondersi con l’allora Tanganica di Julius Nyerere, dando vita all’odierna Repubblica Unita della Tanzania. L’ex sultanato ed ex protettorato britannico mantenne una certa autonomia, un parlamento e un governo, ma da allora le rivendicazioni per una maggiore libertà da Dodoma non sono mai scomparse, con picchi di maggiore tensione e influenze legate agli aspetti culturali e religiosi della zona.
L’arcipelago di Zanzibar (composto dall’isola omonima, detta anche Unguja, da Pemba e da una quarantina di isole minori) è stato la culla della cultura swhaili. Su queste terre lambite dalle correnti dell’oceano Indiano si sono incontrate, combattute e mescolate popolazioni bantu, persiane, indiane, arabe ed europee. È qui che ha visto la luce la lingua kiswahili oggi diffusa in grandi porzioni dell’entroterra africano. È qui che l’influsso delle popolazioni arabe ha portato la maggioranza della popolazione a praticare la religione islamica, così come avviene, da Lamu a Mombasa, anche sulle coste del Kenya.
La situazione dei due paesi, ovviamente, non è identica, ma ci sono alcune analogie. Proprio come in Kenya il Consiglio Repubblicano di Mombasa chiede la secessione da Nairobi, sostenendo che le zone costiere siano sostanzialmente sfruttate dalla capitale e giocando abilmente sulle differenze culturali e religiose presenti nel paese, così avviene anche in Tanzania. A Zanzibar le ragioni dell’arcipelago sono state sostenute per decenni dal Civic United Front, ma da quando nel 2010 questo storico partito di opposizione è entrato in un esecutivo di larghe intese con il governativo Chama Cha Mapinduzi, a guadagnarci sono stati i radicali di Uamsho.
Il movimento, il cui nome in kiswahili significa “rinascita”, è nato nel 2001 come organizzazione islamica e chiede la completa indipendenza. Ufficialmente condanna la violenza e non mira a costituire uno stato religioso, ma molti analisti sospettano che ci siano i suoi militanti dietro alcuni episodi che negli ultimi mesi hanno alzato la tensione e accresciuto le paure, fino all’attacco contro le due giovani londinesi. Che, per quanto non abbia ancora una connessione chiara con il quadro politico, sociale e religioso locale, ha rinnovato l’interesse di alcuni media occidentali per Zanzibar.
Il Telegraph, per esempio, ha ricordato un altro attacco con l’acido, portato a termine nel novembre 2012 ai danni di un Imam moderato dell’isola e l’assassinio di un prete cattolico avvenuto in febbraio. Secondo le fonti citate dal quotidiano britannico, ci sarebbero forti indizi che indicherebbero la mano di Uamsho dietro queste violenze, ma di certo per ora c’è solo che alcuni leader del gruppo sono in carcere in attesa di essere processati per incitamento all’odio religioso.
Un altro aspetto controverso della questione è l’arresto, avvenuto domenica, di un religioso radicale tanzaniano, Issa Ponda, leader del Consiglio delle Organizzazioni Islamiche di Dar Es Salaam. Il predicatore, già nei guai con la legge per le sue posizioni estremiste, sarebbe stato a Zanzibar nelle settimane che hanno preceduto l’attacco alle due volontarie, ma ancora non è chiaro quanto la sua cattura sia strettamente legata a questo episodio. Molte testate britanniche (e anche il sito del Corriere della sera) sembrano ben convinte che lo sia, ma, a prescindere dal fatto che il diretto interessato abbia ovviamente negato il suo coinvolgimento, bisognerebbe usare un po’ più di cautela nel collegare i due fatti, come ha fatto giustamente notare sul suo blog Ben Taylor.
Quel che invece andrebbe sottolineato con forza è la situazione socio economica all’interno della quale avvengono questi episodi. Guardando ai numeri del turismo, si scopre che l’arcipelago è in realtà un “paradiso” solo per i viaggiatori stranieri, che il celeberrimo motto hakuna matata non vale certo per gli zanzibarini e che l’altra tipica espressione dell’isola, pole pole, potrebbe riferirsi alla crescita della ricchezza dei locali più che al prendere la vita “piano piano”.
Su un milione 300mila abitanti circa, sono 12mila gli impiegati diretti nel settore e 45mila quelli impegnati in attività ad esso connesse. Secondo l’ong italiana Acra, che ha da poco concluso proprio a Zanzibar un progetto di turismo responsabile, “ogni dieci dollari spesi solo uno arriva a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali più svantaggiate… Mancano le competenze per trovare impiego nel settore turistico, così come per dedicarsi a iniziative imprenditoriali legate all’indotto”. E, infatti, la disoccupazione giovanile supera il 20 per cento garantendo ai movimenti più radicali come Uamsho un buon bacino di disillusione e rabbia dal quale attingere. Kirstie e Katie potrebbero esserne state vittime.
[Foto in creative commons da Flickr: Marc Veraart e Kyle Taylor]