In nome di Dio, andatevene!

To be (in) or not to be (in). This is the question. Da tempo si valutano le probabilità di una “Brexit”, ovvero dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Che entro il 2017 si terrà un refere...

To be (in) or not to be (in). This is the question.

Da tempo si valutano le probabilità di una “Brexit”, ovvero dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Che entro il 2017 si terrà un referendum sul tema è sostanzialmente scontato, sia che alle elezioni del 2015 vincano i conservatori, sia che a vincere siano i laburisti. L’esito, invece, scontato non lo è affatto. Alle elezioni amministrative dello scorso Maggio, i candidati dell’UKIP, United Kingdom Independence Party, partito marcatamente euroscettico, hanno sbancato con una performance elettorale che è andata molto oltre le aspettative (qui). Tanto da costringere il premier David Cameron, che li aveva spesso elogiati apertamente (“matti”, “razzisti in incognito”) a una revisione totale del proprio pensiero: ”Non credo che lo status quo nell’Ue oggi sia accettabile (…) Voglio porre ai cittadini britannici un semplice quesito, “dentro o fuori”.” Data la crisi dell’Euro, Cameron si è visto costretto a rincorrere la piattaforma eurofobica e vagamente xenofoba di Nigel Farage per trattenere gli elettori in fuga. Ne deriva, è logico, un’ulteriore irrigidimento del partito conservatore verso Bruxelles: Lo scenario che l’UKIP prospetta è, in ultima istanza, quello di un distacco totale. Il consenso che raccoglie dimostra quanto sia radicato il furore antieuropeo nel Regno di Elisabetta.

Ma veniamo al punto di vista continentale. Qualsiasi europarlamentare europeista ha sul tema un’opinione ufficiale, politicamente corretta, che segue l’accorata speranza che l’Inghilterra rimanga in Europa. Ma ne ha anche una ufficiosa e più intimamente sentita. Di base, questa: Storicamente la Gran Bretagna in Europa è sempre stata una quinta colonna degli Stati Uniti. Nel processo di integrazione Europeo – reso da questa crisi anche più urgente, anche più fondamentale – non c’è stata una volta in cui l’Inghilterra non si sia opposta utilizzando il suo diritto di veto. Non si annovera caso in cui non ne abbia rallentato o bloccato i processi.

In realtà la Gran Bretagna ha moltissimi interessi a rimanere in Europa. Per dirne solo un paio, mantenere elevati i livelli dell’export (può un paese vivere di sola finanza?) e mantenere un ruolo politico di rilievo, se non vuole passare dall’essere il più strategico alleato degli USA ad una semplice isola nell’Atlantico. Cameron lo sa e sta solo cavalcando l’onda di un euroscetticismo di pancia per vincere le elezioni del 2015. Si lascerebbe poi un sufficiente spazio di manovra per fare campagna elettorale in senso favorevole alla permanenza nell’Unione in vista del referendum.

Forte dei risultati delle urne, sarà facile ritrattare le condizioni per la permanenza in EU. Possibilmente nell’ambito di una riapertura dei negoziati sul futuro dell’Eurozona e senza cedere terreno in termini di integrazione. Invece della sinergia multilaterale che l’Europa dovrebbe essere, abbiamo ancora una volta la parte che blocca il tutto. L’isola che mette in scacco matto il continente.

Certo, trattasi di puro opportunismo politico e di totale mancanza di una visione complessiva. Tanto che verrebbe da sperare quello che si auspica ad ogni relazione disfunzionale che sfocia nella sopportazione reciproca: lasciarsi. Per assurdo, viene proprio da citare Cromwell. Non volete restare in Europa? “In nome di Dio, andatevene!”

Marta Fogliacco

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