“Non esiste un’arte privata, un artista ha l’obbligo morale di incidere sulla realtà”. Ne era convinto Piergiorgio Welby, intellettuale e attivista per i diritti dell’uomo, impegnato per il rifiuto dell’accanimento terapeutico a partire dalla sua condizione di malato, prigioniero di un corpo attaccato alle macchine che lo hanno mantenuto in vita artificialmente fino al suo ultimo giorno.
Si può essere d’accordo o no con questa affermazione sul valore ‘politico’ dell’arte, ma l’ispirazione emerge oggi con tutta la sua forza nello spettacolo teatrale Ocean Terminal, che ha inaugurato la stagione 2013-14 del Teatro dei Conciatori di Roma e che sarà in scena fino al 6 ottobre. Tratto dall’omonimo romanzo di Welby, pubblicato postumo, composto da differenti materiali autobiografici, lo spettacolo ripercorre gli spezzoni dell’esistenza eccezionale di un antieroe: dall’infanzia cattolica alla stagione hippy, dalla tossicodipendenza (come rimedio ai dolori della malattia progressiva) ai riti terapeutici, dagli sprazzi di giocosa libertà alle frecce dell’autoironia fino alla trasformazione del corpo in una gabbia perenne.
Una sfida complessa, trasferire tutto questo sulla scena di un palco. Non soltanto perché non sembra – questo che viviamo – il tempo di un’arte ‘impegnata’. Ma, soprattutto, per ragioni squisitamente artistiche e tecniche. Come si fa a rappresentare la materia magmatica e caotica che si agita nei lacerti di vita del personaggio? Come si fa a testimoniare l’impegno civile senza cadere nella noia della retorica o, peggio, della pedagogia?
Possiamo dirlo: Emanuele Vezzoli, direttore e interprete dello spettacolo, ha vinto la sfida. Solo al centro della scena per tutta la durata della rappresentazione (ma con l’aiuto decisivo di Gabriella Borni che ha curato i movimenti scenici), Vezzoli fa la cosa giusta: un impasto alto di linguaggio e corpo. Esalta gli aculei del parlato anche più scurrile e li miscela con una presenza fisica discreta ma potente. Certo, il corpo atletico e maturo dell’attore non è il corpo malato del personaggio che conosciamo dalle cronache e dalla tv. Ma questo confronto sarebbe ovviamente improprio e superficiale.
Il corpo che occupa la scena deve essere potente per esprimere la lotta di Welby, quella stessa lotta che, nella vita reale, poteva essere solamente linguistica. In questo sforzo si coglie la necessità del teatro. O, forse meglio, la “ricerca di un teatro davvero necessario” (la frase è di Giorgio Taffon, direttore artistico del progetto): un materiale drammaturgico così ricco e composito – fatto di un vissuto doloroso ed etico, di impegno profondo su temi lancinanti, di vivezza espressiva, di una carnalità dolente e sfacciata – chiedeva nella rappresentazione la libertà di quel corpo, proprio come la chiedeva, nella vita reale, il protagonista. Ritorna in questo modo un teatro impegnato, ma fuori da ogni didascalia. La libertà immaginativa, fatta di giochi scenici, inventive associazioni di idee e di parole, tensione muscolare e sudore di nervi, in qualche modo diventa speculare alla vicenda dell’emersione del corpo dei cittadini sulla scena della politica.
Se in questi anni, infatti, la politica si è sempre più ridotta a luogo vuoto di forme e riti inconcludenti, i diritti dei cittadini sono viceversa emersi come ‘corpo’ scandaloso sulla scena delle politiche pubbliche: basti pensare, in particolare, ai diritti dei disabili e dei malati cronici e terminali. Il ‘corpo’ dei cittadini – la concretezza dei loro diritti – sempre più spesso rappresenta un interrogativo rivolto alla astrattezza delle forme giuridiche e alla siderale assenza del ceto politico. La vicenda di Welby, il suo romanzo, questa traduzione teatrale stanno lì a dimostrarlo.
Il lavoro di Emanuele Vezzoli sul testo di Ocean terminal sembra compiuto proprio per questo: per aver fatto del proprio corpo il testo, allo stesso tempo, di una riuscita opera teatrale e di un profondo messaggio civile.
@vittorioferla