Mario Dondero mi onora della sua amicizia. E’ uno dei più importanti fotografi italiani del Novecento, ex partigiano e cultore della fotografia come mezzo di incontro, di rappresentazione, quando non di riscatto: non a caso, tra i tanti riconoscimenti internazionali, quello più sentito è arrivato proprio dal porto della sua città, Genova, che anni fa lo ha nominato Camallo Onorario. Tra gli incontri di una vita Pasolini, Beckett e Bianciardi. E una voglia mai sopita di fotografare, scoprire, incontrare. Un paio d’anni fa, Genova dedicò a Robert Capa una grande retrospettiva, proprio qualche settimana prima di ospitare gli scatti di Dondero per una mostra che ha ripercorso il lavoro di una vita. In quell’occasione chiesi a Mario qualche informazione sulla foto del miliziano caduto, da sempre oggetto di dibattito e di dubbi di autenticità. Dondero mi raccontò di aver indagato la storia di quello scatto molto in profondità, da un punto di vista storico e strettamente tecnico, e di averne scritto per Diario, dopo un lungo viaggio in Andalusia. Un viaggio che ha fugato ogni dubbio sulla buona fede di Capa, e ribadito il concetto cardine: quella foto non è solo uno scatto straordinario, ma è il manifesto più credibile dell’orrore della guerra e della dittatura. Qualche stralcio di quella conversazione con Dondero, mandata in onda nel Maggio 2011 dalle frequenze di Radio Popolare.
“Quello che è successo dopo lo scatto è rimasto abbastanza discusso e impreciso per tanto tempo, al punto che si è persino raccontato che quella foto era un falso, una posa che Capa si era inventato. Un racconto alimentato con grande insistenza -e anche con malizia-, perchè questa tesi era sostenuta dagli ambienti franchisti a cui dava fastidio la fama di un fotografo, di un’artista, di un uomo che se stava schierato dalla parte della Repubblica, cioè dalla parte della giustizia e della legalità. Sono andato personalmente sulle tracce di questo miliziano, che è morto il 5 settembre del ’36 a Cerro Muriano, vicino a Cordoba. E’ assolutamente sicuro che quel ragazzo, quel giorno, morì in quel momento in seguito a quel colpo di fucile, che lo colse mentre correva in soccorso di Capa”.
Tutto intorno era battaglia. Il paese circondato dai regulares marocchini, fedeli a Franco, quando arriva una controffensiva anarchica che consentirà a Capa ed altri reporter di mettersi in salvo.
“In quel momento, in quell’assalto cade il miliziano. Ecco allora io dico, com’è possibile che in un contesto così tragico, così drammatico, così forte, a Robert Capa venga in mente di far recitare la morte a qualcuno? A parte che se l’avesse fatta recitare veramente, sarebbe stato il dio dell’arte, regista formidabile, perchè è un documento di una tale forza in cui è palese il dolore, la sofferenza nel momento estremo”.
Dondero non si ferma alle impressioni, e ricostruisce la storia di quel miliziano.
“Comunque, è una foto che è palesemente scattata dal di sotto, è probabile che questi giornalisti stessero annidati in una trincea. Franz Borkenau, in un libro che si chiama “Spanish Cockpit”, racconta proprio nei dettagli questa situazione di guerra. Feci un viaggio in Spagna per Diario, per un numero in cui si omaggiava la Repubblica Spagnola e conobbi Ricardo Banon, uno storico catalano (non esattamente un accademico, piuttosto un grande esperto di storia locale e in particolare di Alcoy), cui venne in mente di mostrare la fotografia di Capa – a lungo interdetta in Spagna- all’ultimo sopravvissuto dell’assalto a Cerro Muriano. Era l’ultimo sopravvissuto, e il giorno della battaglia aveva 14 anni. Nella foto riconobbe le giberne, che erano un prodotto esclusivo di un artigiano locale per i brigatisti di Alcoy. Non c’era più alcun dubbio che quel miliziano fosse di Alcoy, solo che al momento non lo riconobbe proprio. Ma poi, facendo diffondere la foto nel paese, arrivò a farlo riconoscere dai parenti: il miliziano si chiamava Federico Borrell Garcia, era un operaio tessile di ventiquattro anni, morto nella battaglia di Cerro Muriano, proprio nel momento dello scatto di Capa”.
Dondero, ottantacinque anni portati splendidamente, vive oggi nelle Marche, dopo una vita battuta tra Milano, Roma e soprattutto Parigi, città che raggiunge spessissimo servendosi quasi esclusivamente del treno. Nonostante decine di incontri fulminanti e seminali, parlando di Capa, si lascia andare ad una ammirazione sconfinata e ad un rimpianto.
“Non ci siamo mai incontrati. Sono andato a Parigi nel 1954, l’anno in cui Robert è morto in Indocina. Non fosse morto ci saremmo sicuramente conosciuti al suo ritorno: avevamo molti comuni amici. Mi manca proprio averlo conosciuto: interpreta il mestiere di fotografo nel modo più alto, più leale, più onesto, più generoso che si possa immaginare”.
(Grazie a Simone Cioè per la collaborazione)