Mentre la biografia dell’attivista politico assassinato nel 1969 dalla dittatura militare Carlos Marighella (firmata da Mario Magalhaes e uscita da poco per Companhia das Letras) vince il prestigioso premio letterario Jabuti, il più importante per le opere in lingua portoghese, nelle strade di Rio, martedì scorso, si è consumato una sorta di remake di quegli anni bui.
Grazie a una legge “speciale” che permette di incriminare più facilmente i manifestanti, la polizia ha prelevato dalla strada più di cento persone, ne ha arrestate ottanta e ieri per 64 di loro è scattata la carcerazione preventiva.
Ora, molti di questi sono i disperati che la stampa chiama Black Bloc che, approfittando delle pacifiche manifestazioni dei professori di scuola affamati dai salari risibili, dall’inizio di agosto protestano a Rio e San Paolo. E’ singolare, quanto meno, che il giro di vite sulla repressione a random dei manifestanti (hanno portato via anche professori, ricercatori universitari, studenti) venga da un governo capitanato da una ex-attivista politica come Dilma Rousseff, che sotto il regime militare soffrì carcere ingiusto e tortura.
Tornando alle manifestazioni, come già a giugno, quando quelle per l’aumento del prezzo dell’autobus furono clamorosamente sottovalutate dal governo, anche ora la deriva violenta (o, come amano dire i giornali, vandalica) assume via via proporzioni sempre maggiori. E la stampa ci mette il suo sigillo di semplificazione che certo non aiuterà i brasiliani a capire che i Black Bloc non esistono in Brasile, quanto meno non esiste gente professionale che si mette in viaggio per andare a spaccare tutto e incediate vetrine.
Il Brasile, costoro, li produce in casa propria.
Basta alzare lo sguardo e ammirare quel presepio miserabile che è la favela. A Rio di favelas ce ne sono 900. Quale miglior serbatoio di Black Bloc?
Tranne che non sono tali. Sono invece cittadini di serie H che devono convivere con il narcotraffico istituzionalizzato, l’assenza di fogne, il pizzo da parte della polizia, topi grandi come cani, salute e scuola pubbliche allo stremo. E, a ben guardare, già conducono un’esistenza di antagonismo, diciamo così, quotidiano: contro i soprusi continui della polizia e dello stato che li tratta come marginali.
Ora, purtroppo, hanno trovato un’occasione di visibilità molto più ampia rispetto all’intifada delle favelas, perenne, notturna, silenziosa, ghettizzata, e che il Brasile degli shopping center, delle spiagge, dei Mondiali, delle Olimpiadi, dei Brics (ormai azzoppati) non vuole vedere, anzi cerca di rimuovere come un cancro. Ma c’è.
Basta lasciare l’affollata rua Siqueira Campos di Copacabana (dove al supermercato Pao de Açucar si comprano i biscotti italiani e i paté francesi), si sale la ladeira dos Tabajaras, e si entra nella Sierra Leone. Ragazzini con il mitra, bambine di quattordici anni al quinto mese di gravidanza, tubercolosi, febbre dengue.
Quanto possono funzionare ancora operazioni di maquillage come la Polizia Pacificatrice (che ha torturato il mutarore Amarildo, scomparso da luglio è mai ritrovato: dunque, un desaparecido) e lo sconfortante flash-back dei pulmann della polizia militare intasati di manifestanti raccolti a mazzi per le strade?
Nella foto di Estevan Radovicz Agencia-ODia manifestati caricati sui pulmann della polizia a Rio de Janeiro