L’Orbita onirica di Alfonso Cuaròn

Riuscire a gestire un film all’interno di uno spazio ristretto, costretto e costringente, è già di per sé un virtuosismo: lo fece Bresson con Un condannato a morte è fuggito e un anno dopo lo ripet...

Riuscire a gestire un film all’interno di uno spazio ristretto, costretto e costringente, è già di per sé un virtuosismo: lo fece Bresson con Un condannato a morte è fuggito e un anno dopo lo ripeté Sidney Lumet in La parola ai giurati. Lo fa anche Alfonso Cuaròn (Paradiso Perduto, Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, I Figli degli Uomini) che però decide di invertire la marcia, pur mantenendo immutata l’idea.

Come nell’agghiacciante Wolf Creek II, visto a Venezia 70, horror classico in cui l’ outback, il deserto australiano, diventa, in tutta la sua vastità, la prigione del protagonista inseguito da un folle sociopatico, così in Gravity, il nuovo film del regista messicano, il Cosmo diventa un piccolo grande palco su cui mettere in scena le debolezze e le grandezze di quel piccolo grande essere che è l’Uomo.

Il Vuoto di Cuaròn, l’immenso spazio misterioso, è però innanzitutto uno spazio filosofico – fa in effetti pensare alla reazione sgomenta dei legionari romani che, conquistata Gerusalemme e profanato il Tempio, rimasero attoniti nel vedere che nel Sancta Sanctorum non c’era assolutamente nulla. Ma come, è qui che dovrebbe stare il Dio degli Ebrei? Nel nulla?
Nothing comes out of nothing – dice Lear, e forse è vero. Ma non è così per Cuaròn perché il suo Vuoto è, a ben vedere, un vuoto proiettivo in cui l’essere umano può riversare le sue ansie, le sue paure ma anche, perché no, il suo ottimismo e la sua gioia di vivere.

Il Vuoto di Gravity è una tabula rasa che risponde al contatto umano ed in questo vien da chiedersi quanto abbia contato, per il regista, il precedente di un film come Sfera (1998), poco amato dalla critica (forse perché tratto da un romanzo di Micheal Chrichton, la cui massima colpa agli occhi del mondo della cultura sembra essere l’aver scritto Jurassic Park ed averci fatto i milioni). Anche lì, l’oggetto alieno, in quel caso posto in fondo al mare (altro spazio pressoché in-finito) risponde alla stimolazione della mente umana amplificandone sicurezze e timori.

La trama di Gravity è di una semplicità (volutamente) estrema. Un navigato comandante alla sua ultima missione programmata (George Clooney) ed una enigmatica scienziata al suo battesimo spaziale (Sandra Bullock) si ritrovano nell’impossibilità di tornare a terra a causa di uno sciame di detriti che distrugge la navetta su cui sono imbarcati. Con il carburante rimasto al buon Clooney si avviano verso la Stazione Spaziale Internazionale (russa), dove comunque non riusciranno a combinar nulla, sino a che Sandra Bullock, sola superstite dopo il sacrificio del compagno, sarà in grado di raggiungere la Stazione Orbitante Cinese da cui prenderà un modulo di salvataggio e tornerà sulla Terra.

Funzionale alla semplicità della trama è la maestria del regista nell’orchestrare tutta la vicenda, la sua capacità di creare vera suspense in un contesto che più ripetitivo di così si muore. Alcune scene, va detto, tengono davvero col fiato sospeso.

La critica si è soffermata nel demolire la prova di Clooney, definito da più parti gigione e troppo legato al suo personaggio dell’ average American. In realtà, bisogna riconoscere che l’attore è riuscito a creare un personaggio – per quel poco che resta in scena, – pieno e ben caratterizzato, pur non uscendo mai dallo scafandro spaziale di cui è prigioniero. Se di Hal 9000 sentivamo solo la voce, e che voce, di Clooney vediamo solo il volto chiuso nel casco pressurizzato e tuttavia basta e avanza per farci conquistare subito da un personaggio che decide di non cedere alla paura, allo sconforto e continua a fare battute anche quando si avvia, inevitabilmente, verso la morte (ma è proprio in quel momento che vede l’alba sul Gange e ne rimane affascinato).

Sandra Bullock è invece un personaggio più ‘umano’, più fisico, e non solo perché si toglie la deformante tuta bianca ma perché il regista ha deciso che è sul suo corpo e sul suo volto che dobbiamo vedere il trascorrere delle sensazioni.

Nello svolgere del film scopriamo che la scienziata ha perso una figlia piccola (e la critica ha subito parlato di indulgenza verso clichés hollywoodiani: evidentemente, secondo alcuni critici, di genitori che perdono figli prematuramente ce ne sono solo a Hollywood?) e che questo lutto impronta la sua esistenza senza che lei sia in grado di reagire (sarebbe interessante trovare il furbacchione che per primo ci ha raccontato che i lutti si superano – al massimo si accettano).

Il film di Cuaròn è innanzitutto un film sulla trascendenza, per quanto essa possa sembrare obsoleta nell’era dello Space Shuttle. Questo è un film che è impregnato della ricerca (e della presenza) dell’Invisibile, sia esso rappresentato dal santino-icona di San Cristoforo che la Bullock trova nella Stazione Russa oppure nel piccolo e grasso Buddha che trova in quella Cinese.

La scena finale, che molti hanno giudicata ‘di troppo’, è in effetti una seconda alba dell’umanità, con la protagonista che deve liberarsi dall’involucro del modulo di salvataggio che si inabissa in un lago (amniotico) dal quale la Bullock emerge (insieme ad una rana…e non è un girino, la prima forma di vita?) come la Vita stessa è uscita dall’acqua milioni di anni fa.

Appena arrivata sulla spiaggia – rossa come la terra d’Africa che ha visto l’alba del genere umano, – stringe nel pugno una manciata di argilla, l’argilla biblica di cui è fatto l’Uomo, fino ad alzarsi eretta e poi, come in lei fosse concentrata la storia dell’Umanità tutta, a guardare verso il cielo.

Se pure Cuaròn non ci dice esplicitamente che veniamo dalle stelle, ha senza dubbio saputo fotografare l’omerico desiderio umano di raggiungere e afferrare l’Oltre-umano, l’unico vero sentimento, insieme all’amore, che unisce la nostra generazione spaziale a quella delle caverne.

X