Se c’è una cosa che l’instabilità lavorativa insegna, più di ogni altra, è l’importanza del piano B: prima se ne prende coscienza, più possibilità si hanno di uscire dal tunnel a testa più o meno alta.
Non posso fare a meno di citare di nuovo l’insegnante del corso di giornalismo (ebbene sì: quell’esperienza è stata illuminante) che a un certo punto delle lezioni ha chiesto alla classe quale fosse – a nostro parere – il più grande ostacolo verso il raggiungimento dei nostri obiettivi professionali. Naturalmente, non valeva dire che il più grande ostacolo era il Sistema: l’intoppo lei voleva che lo trovassimo dentro noi stessi.
Mentre gli ingranaggi della mia testa ruotavano alla ricerca di quello che secondo me poteva essere il mio più grosso blocco interiore (fosse facile isolarne uno!), e stavo pensando di salvarmi la faccia tirando fuori il classico difetto farlocco – di quelli che quando te li chiedono ai colloqui ti suggeriscono di citare, perché è un difetto che però è anche un pregio, cioè il perfezionismo – ecco, mentre cercavo di arrampicarmi sugli specchi ho iniziato a chiederle qualcosa, non ricordo cosa esattamente, fattosta che ho cominciato la frase usando il termine but, cioè la particella avversativa ma.
Ed ecco che lei coglie la palla al balzo per smascherarmi, alla faccia dei difetti farlocchi. “Ok: here’s is you problem! You have to stop using the term but!” In pratica, smettila di dire ‘ma’ e vedi di andar dritta al tuo obiettivo, del discorso o della vita. Chiaro che sono rimasta basita: era vero, soprattutto in una lingua che non è la mia lingua madre, tendevo a cominciare le frasi con un but, in una sorta di escamotage tutto mio e grammaticamente agghiacciante.
Aldilà di questo, pensandoci bene, la mia vita quotidiana è costellata di ma: indipendentemente dal livello di soddisfazione per quello che sto facendo/vivendo, penso ad altro, cerco altro, mi chiedo se ci sia di meglio. Ma, ma, ma. È stato stupefacente e rivelatorio rendermi conto di come una persona che mi conosceva appena fosse in grado di vedere di me qualcosa di così vero, evidentemente palese a occhi che non erano i miei.
Comunque, ed ecco l’aspetto interessante, l’insegnante mi dice: “Questa è anche una cosa positiva, vuol dire che hai sempre l’alternativa”. E anche qui, chapeau. Ci ha preso in pieno. In questo la mia natura si conforma perfettamente alle necessità’ del precariato: sono specializzata nel crearmi alternative, anche perché – manco a dirlo – quando hai più alternative dimezzi il rischio di delusione. Se ti va male qualcosa in un ambito puoi trovare soddisfazione altrove, se il piano A fa acqua da tutte le parti puoi passare agilmente al B. Insomma differenzi il tuo portafoglio di investimenti, professionali (e in certi casi anche emotivi, ma quella è un’altra storia: alle relazioni – purtroppo o per fortuna! – non è così automatico applicare questo principio…
Per concludere, la chiave sta in una parola spesso abusata ma quanto mai necessaria: flessibilità. Mentale, soprattutto. Della serie: abbi chiari i tuoi obiettivi e le cose su cui non vuoi transigere, ma creati uno o più piani secondari da adottare come puntelli nell’attesa che il piano A funzioni. Il piano B può anche essere un investimento su se stessi: nei buchi tra un lavoro e l’altro studia, approfondisci, viaggia, cura una tua passione, un qualcosa che ti differenzi dagli altri. Tutto, purché tu non rimanga fermo. Le cose girano solo se tu cominci per primo a spingere, come su un’altalena. Il mio ultimo piano B? Una scuola per diventare grafologa, bizzarro interesse che corteggio da un po’. Ma dovrò aspettare: nel frattempo ho trovato lavoro. Con contratto a tempo determinato. Ovvio.