Lunedì sera. Sono su un treno regionale nella tratta Treviso – Venezia.
Il treno sta per partire. Arriva trafelato un uomo di colore, con una bottiglia di birra in mano e il telefonino all’orecchio.
Prende posto in uno dei sedili dall’altro lato del corridoio rispetto a me. Un ragazzo gentile gli fa spazio.
Mi colpisce l’ingresso di quest’uomo, la birra in mano e il suo parlare concitato al telefonino, in francese. Mi colpisce anche il gesto del ragazzo che lo esorta a sedersi lì.
Il treno parte. Arriva il controllore a passo svelto, quasi di corsa.
Corre dall’uomo di colore: “Ehi tu, che ti sei fatto tutto il treno di corsa, fammi vedere il biglietto!”.
E’ una scena a cui ho assistito credo decine di volte nella mia vita di pendolare, ma questa volta è diversa, perché l’uomo il biglietto ce l’ha, ed è valido.
Lo mostra al controllore continuando a parlare al telefono, quasi con nonchalance. Il controllore, interdetto, gira i tacchi e torna indietro.
Rimango colpita ancora dalla nonchalance quasi surreale con cui si svolge l’episodio.
Il treno prosegue la sua corsa, l’uomo stacca la telefonata e comincia a imprecare verso il controllare: “Tu perché hai lasciato indietro dieci persone e sei corso a chiedere biglietto a me? Tu razzista! tu fare così perché sono nero!”
Il controllore peggiora la situazione. Non sapendo evidentemente come giustificare il gesto, pensa bene di dire all’uomo di bere di meno perché puzza di alcool. Partono insulti reciproci. L’uomo che continua ad accusare il controllore di razzismo e di essere sporco, il controllore che cerca di smorzare i toni proseguendo il suo check di biglietti. Viene da me e azzarda una protesta perché anziché mostrargli il biglietto su pdf gli sto mostrando una mail sul telefonino. Poi pensa bene che è il caso di abbozzare e spostarsi perché l’uomo sta dando in escandescenze. Il ragazzo lì accanto gli dice di calmarsi: “E’ stupido lui” (riferito al controllore) “Calmati“.
L’uomo di colore continua a imprecare per un po’, poi scende alla fermata successiva.
…
Passa qualche giorno e leggo su Repubblica Milano un altro episodio: un clochard non è stato ammesso ad una proiezione pomeridiana al cinema Apollo, per quanto in possesso dei soldi per comprare il biglietto. Pare che la bigliettaia si sia giustificata dicendo – con imbarazzo verso il resto delle persone in fila – che non poteva farlo entrare perché disposizioni interne glielo vietavano. Lui non ha protestato: ha detto “Ok” ed è andato via. La direzione del cinema ha poi smentito l’esistenza di tali norme. I testimoni dicono di esser rimasti stupiti quando si sono resi conto della situazione, e di non essersi nemmeno accorti che si trattava di un clochard.
…
Non ci sarebbe motivo di associare questi due episodi disgiunti, se non per la coincidenza di essere avvenuti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e per quella parola chiave che li unisce con schiacciante evidenza: pregiudizio.
Si tratta di due situazioni assolutamente condannabili in cui tuttavia c’è una zona grigia che disturba perché rappresenta la terra di confine labile tra giusto e ingiusto, perché la verità è che a nessuno piace trovarsi accanto in treno un uomo – bianco o nero che sia – che beve alcool in stato visibilmente alterato, così come nessuno vorrebbe trovarsi accanto al cinema un vicino di posto maleodorante – che sia un clochard o uno dotato di tutti i comfort casalinghi ma poco avvezzo a usare la doccia.
Un’altra parola mi viene alla mente in automatico: imbarazzo. E anche superficialità. O grossolanità.
Ecco, forse, aldilà di ogni pregiudizio, per dirimere certe questioni – o almeno come punto di partenza per provare a farlo – servirebbe un po’ meno superficialità e un po’ più tatto. Un po’ più di empatia umana, cosa purtroppo drammaticamente rara.