Qualche giorno fa sono andata a vedere – (fatalità: proprio in quello stesso cinema di cui parlavo nello scorso post a proposito del clochard) Two Mothers di Anne Fontaine, film tratto da The Grandmothers della scrittrice premio Nobel Doris Lessing.
Il film rompe un tabù, è scomodo e provocatorio, cosa che non spaventava certo la Lessing, né tantomeno spaventa Anne Fontaine, che dell’esplorazione di territori delicati ha fatto la sua chiave espressiva. Il rischio di scadere nel trash è alto e in alcuni momenti sfiora possibilità concrete, tuttavia nel complesso c’è un equilibrio tanto sapiente quanto miracoloso. Sicuramente Anne Fontaine ha il grande pregio di non indugiare oltre misura nel torbido e nel voyeuristico.
Le due madri protagoniste sono Naomi Watts e Robin Wright (ex Penn). La prima dà qui l’ennesima prova di un talento indiscutibile (è adesso nelle sale anche in Diana: per quanto il film non sia niente di eccezionale, la sua interpretazione alza decisamente la media). La seconda ha invece una palese inespressività: per tutto il film la sua espressione rimane identica, al punto che – sono giunta a concludere – proprio in questa sua impassibilità si potrebbe trovare una chiave di lettura della storia.
Succede questo: siamo in Australia, in una imprecisata location idilliaca, le due protagoniste vivono sul mare e passano il tempo libero fra nuotate, bagni di sole e cene in terrazza annaffiate da vino bianco. Entrambe bionde, belle, atletiche, ed entrambe sole con due figli maschi coetanei. Naomi Watts è Lil, vedova e madre di Ian, Robin Wright è Roz, madre di Tom. Lei un marito ce l’ha – da vent’anni – ma che la comunicazione tra i due sia scarsa si capisce subito: lui, senza averle detto niente, aveva fatto richiesta per una posizione di lavoro a Sidney. Quando la ottiene, fa di tutto per far trasferire là tutta la famiglia, ma né Roz né il figlio vogliono saperne. Allora lui – Harold – le chiede se il motivo della sua resistenza a partire sia Lil: suo marito crede che tra lei e Lil ci sia una relazione. La realtà non è quella: le due sonomigliori amiche, in un legame simbiotico che va avanti da una vita. Il trasferimento di Harold e la non volontà di seguirlo da parte di Roz e Tom fa naufragare il loro matrimonio ventennale senza tuttavia che Roz faccia una piega o perda il suo aplomb.
Nel frattempo succede l’inverosimile: Ian, il figlio diciottenne della sua migliore amica Lil, si è fatto avanti con lei, che non ci ha messo più di due minuti a cedere. Tom – suo figlio – capisce la cosa, e quasi per ripicca decide di fare lo stesso con la madre dell’amico. Che ci mette un po’ di più ma alla fine cede pure lei.
A questo punto ci si aspetterebbe un’indagine psicologica approfondita sui turbamenti che una situazione cosi forte possa provocare, i dubbi, i sensi di colpa, qualche litigio pesante anche. Invece le due amiche ne parlano, e giungono alla conclusione (soprattutto Lil), che non si sono mai sentite più felici e più vive di adesso.
Così continuano, pensando che “tanto presto i ragazzi si stancheranno di noi”. Invece il tempo passa e non si stancano. Il matrimonio di Roz finisce in un soffio e i quattro diventano un’entità unica, chiusi nella loro bolla di sapone, persi nella loro zattera in mezzo al mare blu. (Fotografia e location stupende, niente da dire) Il padre – dal canto suo e in maniera alquanto surreale – non ci mette niente a rifarsi una famiglia: in due anni ha già una nuova donna e una figlia. E qui mi fermo, altrimenti svelo troppo.
Torno però sull’inespressività di Robin Wright, che passa da un matrimonio ventennale alla separazione dal marito all’avere una storia col figlio diciottenne della sua migliore amica al sapere che suo figlio fa lo stesso con Lil con lo stesso sorriso affettato e lo stesso aplomb.
Lil mostra dei turbamenti, dei cedimenti, e il suo rapporto con Ian ha una sua concretezza. La rappresentazione del rapporto tra Roz e suo figlio invece manca di qualsiasi spessore, e lei passa attraverso le situazioni quasi senza entrarci dentro. Le sue emozioni sono sempre contenute. Forse è semplicemente una donna solida, che si fa accarezzare dal vento della vita ma non si sposta di un millimetro. E anche suo figlio pare averne ereditato l’aplomb, mentre dall’altra parte troviamo una madre e un figlio più passionali e conflittuali, più tormentati come è giusto che sia – in fondo – in una situazione così. Parafrasando Harold: la vita va dove gli pare e noi dobbiamo fare il possibile per adeguarci al suo corso, e affrontare il tempo che passa sorridendo, visto che il suo scorrere è inevitabile. Così fa Roz. Ian si innamora di lei, lei a suo modo lo ricambia, poi chiude quando la situazione non può andare oltre.
Il finale dovrebbe essere positivo, eppure lascia – almeno per quanto mi riguarda – l’amaro in bocca. L’inespressività impassibile di Roz – se vogliamo trovarci un senso narrativo – comunica questo: tutto passa, tutto si trasforma, la vita può riservare cose travolgenti e imprevedibili, e ha poco senso chiedersene i motivi o pensarci sù troppo.Forse il trucco sta proprio nel saper prendere quel che c’è da prendere e nel saper mollare quando è giusto farlo, andando sempre avanti. Con la consapevolezza che certi rapporti non sono definibili né incasellabili, certe persone rimangono e basta, nonostante tutto: certi legami si trasformano ma sono impossibili da dissolvere.