Riconosciamolo: sancire un principio è particolarmente difficile, all’apparenza, proprio quando per difenderlo si rischia di dover prendere le difese degli indifendibili. Ma questa difficoltà non può essere un ostacolo, anzi, è la conferma dell’utilità del paradosso.
Non casualmente, mentre una pessima manifestazione dell’autoproclamatosi antifascismo militante scendeva al livello dello scontro fisico coi consueti bulli neonazisti impedendo la celebrazione delle esequie di Erich Priebke, il Senato della Repubblica italiana licenziava, in Commissione Giustizia e con voto quasi unanime, l’introduzione del reato di negazionismo, col quale condannare coloro i quali facciano apologia (sic!) o istighino al negazionismo.
L’intervento del Senato è soprattutto una prova, l’ennesima, dell’incontinenza legislativa, ma non solo.
E’ purtroppo la triste conferma che l’Italia è afflitta da uno stato confusionale profondo e dannoso.
Meglio si direbbe, che ad esserne afflitti sono in primis i politici, che utilizzano strumenti sbagliati per necessità o questioni che poco o punto dovrebbero affaccendare il legislatore. Purtroppo, però, fino a quanto l’efficienza di un parlamento sarà dalla stampa misurata con il numero dei provvedimenti emanati, non v’è speranza di guarigione.
La confusione è poi massima, pare di capire, quando si debbano maneggiare i diversi gradi di giudizio: quello storico, quello politico, quello giudiziario, quello morale.
A poco servirebbe forse invocare la crociana filosofia dei distinti: la società di massa, e la sua cultura di massa, hanno presto gettato, in senso liberatorio, queste anticaglie all’ammasso, e noi restiamo dei robivecchi intellettuali.
Ciò non ostante, esprimere un giudizio storico sulle aberrazioni compiute dal nazismo, dal fascismo e dal comunismo (quest’ultimo sia nella declinazione europea, sia in quella asiatica ed indocinese), non dovrebbe richiedere il bollo tondo di una qualche sentenza penale contro questo o quel responsabile. Diversi, troppo diversi, sono gli strumenti, le finalità, i presupposti ed i limiti delle due forme di giudizio: sempre aperto, sempre revisionabile – con buona pace degli antirevisionisti in servizio permanente – quello storico; limitato, condizionato dalle prove ritualmente e legittimamente ammesse ed ammissibili, da valutarsi secondo il canone probatorio più severo dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”, quello penale.
La stessa regola, poi, dovrebbe valere per il giudizio politico: esprimere una valutazione sulla classe politica italiana della prima repubblica o della seconda repubblica non richiede, e non richiedeva, il ricorso agli strumenti di indagine penale, buoni forse per accertare qualche fatto di reato ma inadeguati per compiere l’opera, assai più complessa, propria di un qualsiasi giudizio politico.
E’ inutile che ci prodighiamo nella casistica.
Queste ovvietà, però, non paiono così ovvie. E ci costringono a scrivere quantomeno per testimoniare che si può essere fieri avversari delle idiozie di una certa storiografia – quella degli Irving che negano l’olocausto, o quella degli ingenui minimizzatori di altre brutalità commesse nel nome della Storia o della Giustizia – pur restando contrari ad iniziative legislative come quella quasi unanimemente portata avanti in Senato.
In poco più di una generazione si è passati dal sessantottardo “vietato vietare” al post-moderno “vietato negare”, con la sensazione che molti propugnatori del primo slogan liberatorio siedano oggi nelle schiere dei difensori della Storia di Stato, che di quest’ultimo utilizza il monopolio della forza per guarnire il monopolio della Storia.
Anche questa apparente assurdità non dovrebbe meravigliare: chi ha osservato seriamente le dinamiche proprie di qualsiasi moto rivoluzionario, primo tra tutti Tocqueville, ha sempre ammonito contro l’illusione del cambiamento radicale, ridottasi spesso, se non sempre, nella mera sostituzione di chi esercita il potere, siano esse una classe, un nuova forma di governo, un nuovo principe. Insomma, la rivoluzione come strumento retorico per l’occupazione delle casematte del potere, culturale in primis, e di conserva politico.
Quello che ci preoccupa, e che speriamo debba preoccupare le sottili schiere degli amanti della libertà, è che il legislatore italiano si dimostri così insensibile all’essenza stessa di quella che Kenneth Minogue chiama l’architrave della cultura occidentale, ovvero la libertà morale.
La libertà, per l’appunto, di scegliere senza condizionamenti il proprio atteggiamento, le proprie convinzioni, manifestando queste ultime persino in pubblico ed anche quando sono o minoritarie oppure semplicemente sciocche e superficiali.
Negare l’evidenza, come gli storici negazionisti fanno, è un assurdo storico: contro di loro vi sono le evidenze irrefutabili, incontrovertibili, univoche nella loro drammaticità. Gli storici negazionisti e i drappelli di nostalgici culturalmente sprovveduti che ne mutuano i giudizi per fini politici raccapriccianti non meritano altra sanzione che quella propria del giudizio storico e morale.
Sanzione i cui unici atti dovrebbero essere la pubblicazione consegnate alle biblioteche, gli atti di convegni che ribadiscano ciò che la Storia, quella seria, si è presa la premura di insegnare. Oppure, e sul piano morale, la riaffermazione dei principi costitutivi di una società aperta, ovvero il pluralismo e libertà anche di dire sciocchezze, fintantoché queste sciocchezze non superino la soglia delle mere manifestazioni di pensiero.
Il modello alternativo, ed al quale l’iniziativa della Commissione Giustizia del Senato pare rivolgersi, è il modello della nazionalizzazione, della statizzazione del giudizio Storico e morale, che viene cristallizzato, una volta per tutte, nella verità di Stato, suggellata e sanzionata in Gazzetta Ufficiale, e nel comportamento di Stato, l’unico moralmente accettabile in un consesso civile.
Uno Stato, quindi, che diventa allo stesso tempo storico e pedagogo, tutore incontestabile, salvo intervento delle procure della Repubblica e dei Carabinieri, di ciò che è vero, storicamente, e giusto, moralmente. Uno Stato talmente convinto di sé e dei suoi poteri da illudersi di poter cancellare la superficialità, l’ignoranza, la volgarità, dalla società, come se si trattasse di una malattia da curare.
Col rischio di restare dimentichi dell’avvertimento del Beckett di “Murder in the Cathedral” di Thomas Stearns Eliot, per il quale il peggior tradimento era rappresentato dal fare la cosa giusta per il motivo sbagliato.