Se c’è una cosa che la giornata di ieri – con i suoi dietrofront repentini, le sue figuracce brunettiane, i suoi strepiti in Aula e i suoi toni accesi, esagerati e accorati – ci ha insegnato, è che essere più realisti del re, come da detto, non sempre paga. E non paga non soltanto per Berlusconi, che ha ceduto le insegne del potere alle “colombe” degli ultimi tempi e si è piegato, mettendo in difficoltà i suoi adepti più integralisti (da Sallusti sul Giornale a Bondi a Palazzo Madama) e la sopravvivenza del progetto del ritorno di Forza Italia, ma anche per tutta una serie di personaggi che hanno travisato (o dimostrato di travisare) ciò che è successo nelle ultime ventiquattr’ore.
Come scrive Claudio Cerasa su Studio, ieri ha perso sì il Cavaliere – che probabilmente non metterà più piede in un’Aula repubblicana – ma anche Matteo Renzi, per cui la durata di questo esecutivo rimane un fattore importante in chiave Congresso. E Renzi e molti renziani, pare, non sono affatto contenti della piega coesa che il Letta-Alfano potrebbe prendere nei prossimi giorni: si parla molto di ritorno alla DC, di ostacolo al bipolarismo, di doroteismo. La mia idea, invece – per quanto possa comprendere la premura che anima la componente renziana – è che mostrare di mettere la propria corsa davanti ai bisogni del paese potrebbe rivelarsi un boomerang per il Rottamatore.
Una menzione d’onore merita, come sempre in questi ultimi tempi, un altro candidato alla segreteria del Pd: Pippo Civati. Il suddetto, dopo aver prima accarezzato la possibilità di dare la fiducia al governo Letta («perché forse non è questo il momento di dividersi», come da agenzie) e poi di votare no, si è infine astenuto denunciando la mancata consultazione della base e sostenendo – oggi – che sarebbe stato auspicabile rimettere insieme «l’alleanza con cui ci eravamo presentati alle elezioni» mentre invece ci si è rivolti a destra. Al deputato monzese dev’essere sfuggito che un governo c’era già – per quanto non gli piacesse e non gli piaccia – e Sel, non facendone parte, sta all’opposizione. Inutile – e falso – dire che «il governo è rimasto lo stesso in tutto e per tutto» quando è evidente che non è così: se prima i ricatti che lui stesso denunciava (abolizione dell’Imu, rinvii infiniti sull’Iva e quant’altro) venivano da Arcore, oggi Arcore ha un peso del tutto ridimensionato. L’azione del governo, di conseguenza, non può che risentirne in senso positivo, comunque la si pensi.
Silvio Berlusconi ieri al Senato.
Dire che qualcosa è cambiato non significa essere tifosi del governo Letta passato o presente, per quanto mi riguarda, ma tentare di analizzare gli eventi da una prospettiva obiettiva: ammesso che mesi fa ci fosse stata «l’alternativa» che molti citano (pur guardandosi bene dal ricorrere alla logica per definirne modi, tempi e motivi), oggi quell’alternativa, per dato di fatto, non esiste. Formigoni e Cicchitto ci stanno improvvisamente simpatici? No, e non posso che biasimare chi ne sta facendo i nuovi eroi della sinistra. Ma dall’altra parte c’è un paese sempre più preoccupantemente in bilico, con mille emergenze di cui occuparsi quanto prima. Ci sono i mercati – che, fuor di retorica politicista, non sono entità vuote ma parte di un meccanismo che influenza la nostra economia e, in senso lato, la nostra vita – e i comunicati di Moody’s, la ripresa da inseguire e diverse altri problemi che vengono prima del «posizionamento politico del partito» che gli scherani civatiani e i difensori del purismo identitario difendono a spada tratta.
Sicuramente Berlusconi non «è un grande», come ieri – al termine della dichiarazione di voto del leader Pdl – ha sibilato Enrico Letta, perché ha messo lo sporco sotto il tappeto per mascherare la sua sconfitta politica più grande di sempre. E si può dire con altrettanta sicurezza che a un governo col Pdl, con o senza Berlusconi in cabina di regia, io e altri preferiremmo di certo un esecutivo in mano al Partito democratico. Ma attenzione a non perdere la bussola, perché il primo fine di un governo – come suggerisce la parola stessa – è esattamente governare, non soddisfare gli ardori paraideologici dei militanti o favorire la discesa in campo di un candidato. Anche se è un governo che non ci piace.