Bestie e SovraniL’aeroporto come metafora

Se penso a quanti aeroporti e stazioni ho visitato, come punti di intersezione tra i luoghi più disparati, tra un viaggio studio, un rientro a casa o una vacanza con gli amici- fidanzata-famiglia, ...

Se penso a quanti aeroporti e stazioni ho visitato, come punti di intersezione tra i luoghi più disparati, tra un viaggio studio, un rientro a casa o una vacanza con gli amici- fidanzata-famiglia, non posso non pensare a quanto questi spazi siano assai più importanti di ciò che pensiamo per lo sviluppo delle nostre vite quotidiane. Come degli stargate dell’ordinario trasportano attraverso lo spazio e il tempo. Spazio, perché permettono di sbucare dall’altro capo del mondo dopo un viaggio in una scatola meccanica – cambiando lingua-volti-luoghi-sensazioni; tempo, perché nei continui vai e vieni da casa, verso luoghi di studio o di lavoro, vediamo crescere i nostri figli, invecchiare i nostri genitori … mutare le nostre città.

Verrebbe da dire, “sputando” su Deleuze che non viaggiava perché spostarsi “spezza il divenire”, che questi “non-luoghi” che sono aeroporti e stazioni, servono proprio a connettere il nostro essere attraverso le variazioni di spazio e di tempo a cui ci costringono queste tappe di partenza, di transito e di arrivo. I vecchi viaggi, macchina, nave o carrozza, consentivano una continuità tra partenza e arrivo che gli stargate segano in due parti: quanti pezzi di me ho lasciato tra un viaggio e un altro – quando andrò a riprendermi ciò che le stazioni e gli aeroporti mi hanno rubato?

Il ricordo dei miei genitori, durante gli anni dell’università, è un insieme di istantanee depositate tra uno sguardo e l’altro rubato agli arrivi e alle partenze dell’aeroporto di Catania – l’immagine di me stesso, tra un treno e l’altro, come corridoi tra una conferenza e un viaggio di piacere, è un mozzicone di sigaretta lasciato come traccia tra i binari usurati delle stazioni in città di cui conosco solo le insegne ferroviarie.

A pensarci bene, aeroporti e stazioni, sono una grande metafora delle nostre esistenze: scandite da pochi eventi traumatici – più che da trame continue, fluide e unitarie. Le stazioni sono i volti di coloro che abbiamo amato, attendendo e sperando che qualche treno non partisse, o tornasse indietro sui suoi passi; gli aeroporti, con i loro voli annullati-spostati-modificati, sono l’emblema della difficoltà di scegliere una direzione univoca per la nostra vita – complicata dal continuo dover scegliere qualcosa, perdendo qualcos’altro.

Il libro di Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi (Bompiani, 2013), potrebbe essere descritto proprio attraverso questo andare e tornare, intervallato dagli stop obbligati di stazioni e aeroporti, che consentono di riacquisire la giusta concezione di uno spazio – l’importanza che l’ambiente che abitiamo, e che abbiamo annusato sin dai primi passi, svolge per la nostra esistenza. L’orologio fermo all’attimo della strage, alla stazione di Bologna, genera uno stargate dello stargate (una meta-porta): ogni volta che passiamo da là non attraversiamo solo i nostri spazi, accelerando i nostri tempi, ma osserviamo le vite di tutti coloro che quel giorno di tanti anni fa sono morti: lasciandoci il dubbio sulle loro reali destinazioni.

Stazioni e aeroporti conservano speranze e sogni: viaggi fatti per rincorrere un amore impossibile, per guardare negli occhi una madre trovata già morta o per sperare, come gli esuli africani – le cui stazioni sono le stive delle navi – che sulle coste europee cercano fortuna, in un futuro che scopre di non essere migliore in nulla.

Viaggiare attraverso l’accompagnamento del flusso, in luoghi di intervallo, è il segno che abbiamo sempre necessità di una neutralità – bianca come le pareti dell’asettico aeroporto di Napoli – che ci permetta di ridare colore specifico alle nostre vite. Volti e sguardi attraversano la nostra memoria nascosta, incrociati in stazioni di periferia, e disegnano un affresco di un’umanità che si dirige in un altrove: stop and go, e ricomincia il viaggio. Senza gli addii lacrimanti ai bordi di un treno, o lo scuotere delle mani in segno di saluto al di là delle barricate di un check-in aeroportuale, cosa sarebbe viaggiare? Senza il dubbio del ritorno, il rischio del non-incontro, e il dolore della partenza, la vita umana sarebbe simile a un deserto – mentre invece ha la forma irregolare di una cordigliera rocciosa.

Tra una vetta e l’altra giacciono, inermi, le stazioni dell’essere: da lontano parte un treno – salire o scendere è la formula imprecisa che dà la cifra della nostra specie.

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