Asia FilesQuattro punti sulle riforme cinesi

Le riforme varate nel corso del terzo Plenum del Comitato Centrale del Partito comunista cinese implicano temi fondamentali che la leadership cinese affronterà per i prossimi dieci anni. Ecco quali...

Le riforme varate nel corso del terzo Plenum del Comitato Centrale del Partito comunista cinese implicano temi fondamentali che la leadership cinese affronterà per i prossimi dieci anni. Ecco quali sono, nelle analisi dei principali economisti cinesi.

Abbiamo volontariamente tralasciato la riforma sull’ex figlio unico e sui campi di (rieducazione al) lavoro, avrete sicuramente possibilità di leggerne ovunque.
Rigorosamente in ordine alfabetico. Conta il pinyin.  

Guoyou qiye 国有企业 (ossia le imprese statali)

Le imprese del governo centrale come simbolo dell’affermazione delle imprese cinesi nell’arena internazionale.
Nel 1989, la Banca di Cina è diventata la prima impresa della Cina continentale ad entrare nella classifica Fortune Global 500. Nel 2002, la Cina aveva 11 compagnie in classifica; successivamente, questa cifra è cresciuta ininterrottamente fino al 2012, quando ha raggiunto quota 70. In questi 10 anni, le imprese giapponesi sono passate da 88 a 68, mentre quelle statunitensi sono diminuite da 197 a 132. Tra le imprese cinesi presenti nella classifica, quelle di proprietà statale e quelle di cui lo stato è azionista di maggioranza rappresentano la quasi totalità – 66 imprese su 70 -; tra queste, 42 sono gestite dal SASAC (State-owned Asset Supervision and Administration Commission of the State Council).

Tratto da La riforma delle imprese di Stato di Hu Angang

Attualmente il problema chiave dell’economia cinese è rappresentato dall’assenza di investimenti privati, e ciò dipende da problemi di natura strutturale. L’industria manifatturiera, che è dominata dal capitale privato, in molti settori è ormai diventata non più redditizia. La crescita improvvisa e consistente dei salari e l’eccesso di capacità produttiva danneggiano gravemente il fulcro dell’economia cinese, cioè il manifatturiero. Non è più possibile trovare scuse per le scelte del capitale, così come non si può più chiudere un occhio sul grave problema degli investimenti portati chissà dove.

La contromisura del governo consiste nell’aumentare la spesa pubblica. Quando i rischi di insolvenza dei governi locali hanno spinto tutte le banche a prestare meno denaro, sono emersi i trust fund; il passo successivo è rappresentato da nuovi prodotti finanziari e dai bond emessi dalle amministrazioni locali. Il sistema bancario ombra ha così sostenuto la parte sana delle finanze locali, i progetti per la costruzione di infrastrutture che hanno accelerato il rilancio; sostenendo, in ultima analisi, la crescita del PIL. Ciononostante, l’espansione della politica monetaria non può risolvere i problemi strutturali: l’aumento della spesa pubblica non sostituisce gli investimenti privati. La politica monetaria espansiva anticiclica e l’aumento della spesa pubblica producono risultati provvisori nello stabilizzare la crescita, ma non potranno mai ottenere una crescita economica duratura, non potranno mai dare una spinta economica organica.

Fino a quando i privati non torneranno ad investire, l’economia cinese non entrerà affatto in un nuovo ciclo. Ciò che stiamo osservando rappresenta una continuazione del ciclo precedente, una ripresa della crescita dovuta [esclusivamente] a politiche di immediata adozione. Questa ripresa nasconde inoltre rischi per uno sviluppo stabile e sostenibile. Gli attuali investimenti dei governi locali per la costruzione di infrastrutture fanno fondamentalmente affidamento sui fondi forniti dal sistema bancario ombra. Le banche ombra sono molto diverse tra loro, ma praticamente tutte operano senza essere monitorate. Ciò comporta che si verifichino numerose irregolarità nel modo in cui raccolgono e prestano denaro. A un livello micro, non pochi progetti di infrastrutture locali hanno difficoltà a restituire i capitali, alcuni hanno perfino difficoltà a pagare gli interessi.

Tratto da Falsi cicli e opportunità di Tao Dong

户籍  Huji (ossia il sistema di registrazione del cittadino: città campagna?)

Le ragioni per cui in Cina è stato creato il sistema di residenza permanente (huji) sono da collegarsi al fatto che la crescita economica non riusciva a tenere il passo dell’inarrestabile incremento demografico. La Cina è oggi l’unico paese moderno che suddivide la propria popolazione in residenti urbani e rurali.
Praticamente tutti sono favorevoli alla riforma, ma nessuna amministrazione locale – soprattutto quelle delle grandi città che rilasciano i permessi di residenza – permette ai “nongmingong”, contadini operai, di trasferirsi nel suo centro urbano. Il settimanale Caijing Guojia Zhoukan ha riportato uno studio condotto nel periodo aprile-maggio 2012 su otto province rappresentative – tra le quali figurano il Zhejiang, il Guangdong, il Jiangxi e il Guizhou – in cui si è scoperto che in diverse città del paese la riforma dello huji ha incontrato non poche opposizioni da parte dei sindaci locali.

La ragione principale va ricercata nell’imperfezione dell’attuale sistema di gestione delle finanze pubbliche locali. L’eventuale riforma infatti è strettamente e direttamente legata all’assistenza medica, alla previdenza sociale, all’istruzione e ad altri servizi sociali. Nell’attuale sistema fiscale, le entrate delle amministrazioni locali sono versate dalle autorità di livello superiore sulla base di una verifica e approvazione della popolazione registrata. Di conseguenza, se gli amministratori locali vogliono espandere la copertura del sistema di welfare urbano, non possono far altro che contare sulla popolazione contadina registrata.

Tratto da La riforma dell’huji di Ye Tan

Jinrong Shichang 金融市场 (ossia il mercato finanziario)

Per quel che riguarda il flusso del credito, il sistema bancario ombra va nella direzione di coloro che necessitano di prestiti ma che, per ragioni regolamentari, non hanno accesso ai capitali del sistema bancario, come ad esempio le piattaforme di finanziamento dei governi locali e gli imprenditori del settore immobiliare (si tratta di fatto di arbitraggio regolamentare).
Dai nostri calcoli emerge che le sue dimensioni siano infatti raddoppiate nel periodo compreso tra il 2010 ed il 2012. Particolarmente sorprendente è stata l’espansione dei trust loan e dei prodotti di gestione patrimoniale. La spinta dietro tale espansione va ricercata nel controllo, a livello regolamentare, sul credito bancario (come le limitazioni imposte alle piattaforme di finanziamento dei governi locali e ai prestiti al settore immobiliare), che provoca una rapida espansione delle attività bancarie fuori bilancio e dei capitali finanziari non bancari. Questo è a oggi un aspetto di cruciale importanza strettamente connesso ai rischi legati al sistema bancario ombra e merita la dovuta attenzione.

Per risolvere i rischi sistemici attuali, da una parte è necessario un intervento sullo stesso sistema bancario ombra, dall’altro bisogna promuovere la liberalizzazione dei tassi d’interesse. I capitali finanziari non bancari della Cina (ad eccezione dei fondi privati) sono tutti soggetti ad un certo grado di regolamentazione. Tuttavia, i requisiti regolamentari, specialmente quelli relativi alla gestione dei rischi, sono di gran lunga in ritardo rispetto allo sviluppo dei mercati. Le autorità devono in primo luogo prendere in considerazione misure per aumentare la trasparenza delle attività finanziarie e innalzare i requisiti di gestione dei rischi. Inoltre, per quel che concerne lo sviluppo dei mercati, è necessario permettere il default dei prodotti. L’intervento non appropriato dei governi locali può, infatti, solo indebolire i meccanismi di autoregolazione dei mercati e aggravare il problema degli azzardi morali da parte degli investitori. Un prodotto d’investimento che non può andare in default può solo incentivare operazioni di arbitraggio sui mercati senza rischi, incrementando di fatto i rischi sistemici del sistema finanziario.

Inoltre, la liberalizzazione dei tassi d’interesse favorirebbe l’eliminazione di alcuni dei rischi sistemici attualmente presenti nel sistema bancario ombra. Tale liberalizzazione include non solo l’abolizione dei controlli sui tassi d’interesse, ma anche l’abolizione dei limiti imposti al credito e del controllo sulla sua allocazione. Se questi obiettivi saranno realizzati, una parte delle attività del sistema bancario ombra – come la cooperazione tra le banche e le società fiduciarie, le società impegnate nei servizi di sicurezza e con le compagnie assicurative – non avranno più motivo di esistere e le operazioni di arbitraggio finanziario in cui sono coinvolte, con relativi rischi annessi, saranno fondamentalmente eliminati.

Tuttavia, prestare attenzione e risolvere i rischi non significa che bisogna sopprimere il sistema bancario ombra, così come liberalizzare completamente i tassi d’interesse non vuol dire che bisogna impedire le attività del sistema bancario ombra. Al contrario, promuovere la riforma del sistema finanziario ed aumentarne il grado di liberalizzazione implica che i capitali finanziari non bancari avranno uno spazio d’azione ancora più vasto. Contemporaneamente potrebbero verificarsi dei cambiamenti sia nei modelli sia nelle forme di business (ad esempio la specializzazione della gestione degli asset e di quella patrimoniale, oltre ad una loro connessione diretta con i mercati dei capitali). Naturalmente, è sempre possibile che si verifichino nuove operazioni di arbitraggio regolamentare, così come nuovi rischi sistemici specifici. In questo senso, bisognerà continuare a monitorare con attenzione il sistema bancario ombra.

Tratto da Il sistema bancario ombra cinese di Zhu Haibin

Wuran 污染 (ossia l’inquinamento)

Sembra appropriato paragonare la Cina attuale all’Inghilterra di Engels del XVIII secolo. Le grandi città erano sature di fumo; gli strati sociali con redditi più bassi avevano perso la loro dignità; il lusso era diventato comune tra le classi più abbienti; la protezione ambientale sembrava un miraggio; in 200 anni le grandi calamità ambientali si sono estese da Londra e Parigi fino a Tokyo. Quanto esposto sopra è un tipico scenario dell’inizio dell’era delle fonti energetiche fossili.

È inutile nascondere che, in qualità di paese all’inizio dell’industrializzazione, la protezione ambientale rappresenterà un pesante fardello per la Cina per molti anni a venire. Come paese in via di sviluppo, essa viene frenata dai paesi sviluppati attraverso gli indicatori di protezione ambientale. Il lungo ritardo, da un lato, genera involontariamente atteggiamenti masochistici, dall’altro, si confonde con le richieste di normali interessi sulla scena internazionale. Per questo, non è difficile comprendere perché la Cina abbia introdotto – sulla base di considerazioni razionali – degli standard di protezione ambientale, come ad esempio l’obiettivo di ridurre del 20 per cento  – entro la fine dell’11° piano quinquennale – il consumo energetico e le emissioni di anidride carbonica per ogni unità di PIL. Alla fine del 2010, la Cina era già riuscita a ridurre del 19 per cento il suo consumo energetico per unità di PIL, raggiungendo quasi l’obiettivo prefissato. A dicembre del 2011, il Consiglio di stato ha definito il 12° piano quinquennale per la protezione ambientale, presentando dati concreti per il 2015 sulla quantità dei principali agenti inquinanti e la sicurezza ambientale delle fonti di acqua potabile per città e aree rurali, sulla qualità dell’acqua e la percentuale di energia [che dovrà essere ricavata] da fonti rinnovabili.

Le prospettive non sono ancora ottimistiche. Il Global Carbon Project  del centro Tyndall per la ricerca sui cambiamenti climatici ha pubblicato sulla rivista Nature i risultati di uno studio del 2012. Questo studio mostra che tra i paesi e regioni che hanno emesso maggiormente anidride carbonica nel 2011 figurano: la Cina (con il 28 per cento di emissioni), gli Stati Uniti (16 per cento), l’Unione Europea (11 per cento) e l’India (7 per cento). Si stima che, nel 2012, le emissioni globali siano aumentate del 2,6 per cento, raggiungendo un livello record di 35,6 miliardi di tonnellate. La Cina è il paese con la maggiore quantità di emissioni, ma a livello pro capite registra un livello relativamente basso, con sole 6,6 tonnellate a persona, di molto inferiori alle 17,2 tonnellate procapite emesse dagli Stati Uniti. L’Unione Europea ha emesso 7,3 tonnellate di CO2 procapite.

Tratto da La Cina di domani: ambiente e sviluppo di Ye Tan
 
 

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