Marco Pantani è morto 10 anni fa, il 14 febbraio 2004. La ricorrenza è stata celebrata in vari modi dai mass media in questi giorni. C’è chi ha tentato la via della razionalità, come Ildo Serantoni su l’Eco di Bergamo del 14 febbraio e Gianni Mura su la Repubblica del 13. E c’è chi ha trascinato la vicenda sul versante emotivo, come Auro Bulbarelli su RaiSport (con un imbarazzato Mura in studio) e Davide De Zan che è andato a casa dei genitori di Pantani per lo speciale di Italia 1.
Perché la figura di Pantani è lì, su quel crinale che separa lo sport visto come attività positiva per lo sviluppo umano da quell’altro pastrocchio, lo sport-spettacolo o lo sport-delle-emozioni.
Chi cerca di restare razionale, come Serantoni e Mura, ripercorre la carriera di Pantani e non può evitare di constatare che fu un campione, l’ultimo a vincere Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno. Poi non può evitare di ricordare che a partire dal 1998, l’anno della doppia vittoria, Pantani uscì dal gruppo dei campioni normali per diventare qualcosa di più, uno di quelli che rimane nella storia di tutti e nel mito degli appassionati. E poi, però, non può evitare di ricordare il doping, e la droga, e la morte.
La causa della morte di Pantani fu una overdose di cocaina – una quantità enorme, 6 volte maggiore di quella sufficiente per morire come appurò il medico legale Giuseppe Fortuni che eseguì l’autopsia (ne scrisse tra gli altri Claudio Ghisalberti per la Gazzetta dello Sport online del 27 luglio 2004, qui il link all’articolo).
Non c’è invidia, non c’è acredine, nel ricordare il male.
Ok, c’è stato anche il bene, e alzi la mano chi non era contento quando il Pirata si toglieva la bandana (un segnale potente), si alzava sui pedali e schizzava via dal gruppo. In quelle occasioni lui era la dimostrazione che si può fare, che la volontà genera forza ed è capace di sbaragliare gli avversari. Una lezione che fa bene al cuore.
Ma.
C’è stato anche il male. È di un uomo che stiamo parlando, capace di grandi imprese ma anche di errori bestiali.
RaiSport e Italia 1, invece, hanno guardato altrove. Hanno privilegiato le immagini dei grandi successi, hanno invitato a parlare i parenti e gli amici di Pantani, hanno tentato di rimestare nel torpido di inchieste giudiziarie forse fatte male e di indagini da riaprire (come quella sulle circostanze della morte del campione, in un residence di Rimini pieno di possibili incongruenze – se ne parla anche sulla pagina della Wikipedia dedicata alla vicenda). Insomma hanno cercato giustificazioni in posti impossibili, e argomentazioni labili quando non temerarie.
Il tentativo è di ridurre la vicenda di Pantani al livello di altri casi da talk show, come la scomparsa di Emanuela Orlandi o l’omicidio di Cogne (solo per fare degli esempi). Così non si è più dentro una vicenda sportiva, dove il campione si guarda, ai analizza, si tenta di capire – con lo scopo di fare meglio di lui. No, si è oltre. Nel territorio della chiacchiera vuota, della lacrima facile che fa vendere spazi pubblicitari.