“12 anni schiavo” di Steve McQueen

E se un giorno, un giorno qualsiasi, il vostro governo passasse una legge attraverso la quale vi privasse della vostra libertà? A questa semplice domanda del carpentiere canadese Samuel Bass (Brad ...

E se un giorno, un giorno qualsiasi, il vostro governo passasse una legge attraverso la quale vi privasse della vostra libertà? A questa semplice domanda del carpentiere canadese Samuel Bass (Brad Pitt) cerca di dare una risposta 12 anni schiavo (USA 2013), Premio Oscar 2014 e ultima prova del regista inglese Steve McQueen (Hunger, Shame), nelle sale in questi giorni.

L’ipotesi di Bass/Pitt è, appunto, un’ipotesi (sicuri?) e viene enunciata nell’ultimissima parte del film. Tuttavia rappresenta, a ben vedere, la chiave dell’intera narrazione.

Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), un apprezzato violinista che vive a Saratoga (quindi nel nord antischiavista degli Stati Uniti) con moglie e figli viene avvicinato da due presunti impresari circensi che lo scritturano per uno spettacolo a Washington – e già qui lo spettatore, sentendo che si viaggia verso Sud, comincia a inquietarsi perché ci vien detto che siamo nel 1841, ben venti anni prima della Guerra di Secessione che avrebbe messo fine (perlomeno ufficialmente) alla schiavitù dei neri negli USA.

Il buon Solomon, che sembra non temere nulla perché non vede il male, accetta di buon grado. Per qualche giorno gli spettacoli vanno bene, il musicista viene pagato profumatamente – Solomon ma dove hai la testa?, si chiede il pubblico, non capisci che nessuno ti pagherebbe così tanto, se tutto fosse alla luce del sole? – finché il regista, con una certa sapienza tecnica, stacca da una scena luccicante al ristorante e ci fa piombare in un buio quasi totale.

Da qui in poi, la nostra prospettiva comincia a coincidere con quella di Solomon: lui che si sveglia intorpidito, nell’oscurità, e respira l’aria rarefatta di un locale che a tutta prima sembra essere una cantina. Un peso alle caviglie e ai polsi: sono dei ceppi. Il tutto mentre, con un veloce montaggio alternato, attraversiamo la mente di Solomon che procede per serrati flashback ricordando il malore (indotto probabilmente da qualche droga contenuta nel vino) della sera prima, i due ‘impresari’ che lo mettono a letto e lui che perde conoscenza.

Verrebbe da dire, ad onore di McQueen, che se il cinematografo i Lumière l’avessero inventato quando Edgar Allan Poe era ancora vivo e lui avesse voluto cimentarsi nella regia, è così che avrebbe gestito un suo immaginario film: la cella in cui Solomon si ritrova, inconsapevole, ha molto più del Pozzo e il pendolo che non del cerebrale Processo kafkiano, pur mantenendo inalterato, di quest’ultimo, il senso di impotenza e frustrazione derivante dall’insensatezza della situazione (e della vita?).

Piegato – almeno apparentemente – nel morale dalle sferzate del rapitore che vuol fargli subito capire chi comanda, Solomon comincia il suo viaggio verso il Sud che è, ovviamente, una dantesca discesa agli inferi: se il Nord è la terra verde della libertà, il Sud è anche cromaticamente il luogo inospitale delle paludi melmose e dell’umidità che appiccica le camice di cotonaccio pesante sulla pelle martoriata dalle frustate di questi schiavi che hanno perso qualsiasi speranza in un domani migliore, rassegnati ad una vita bestiale che McQueen ci restituisce in tutta la sua brutalità, mai eccessiva o truculenta ma piuttosto declinata nell’angosciante consapevolezza del non avere scelta.

Solomon è uomo, tuttavia, brillante e le sue qualità le mette subito a buon frutto nella piantagione del suo primo padrone, il timidamente liberale William Ford (Benedict Cumberbatch). E tuttavia, come in qualsiasi situazione di soggezione in cui l’ultima ruota del carro superi i quadri intermedi, lo sfortunato violinista non tarda ad attirarsi le invidie e l’odio del carpentiere John Tibeats, un ottimo Paul Tano che dal Petroliere in poi difficilmente riusciamo ad immaginare in una parte che non sia di ferina diabolicità e scaltrezza.

Il ‘padrone’ Ford è costretto quindi, per evitare che Solomon venga ammazzato, a cederlo al ‘padrone’ Epps (Michael Fassbender), un dissoluto ipocrita che abusa delle sue schiave ma invoca la protezione divina ad ogni piè sospinto. E’ appunto dopo dodici anni di frustate, insulti, contentini e false speranze che dal nulla, quasi inosservato (anche per noi pubblico che ormai di-speriamo in un colpo di scena), si materializza il falegname canadese interpretato da Brad Pitt, a cui son state date saggiamente delle fattezze da patriarca biblico che lo pongono iconograficamente a metà tra il capovillaggio amish e il presidente Abraham Lincoln, colui che, di lì a vent’anni, avrebbe abolito la schiavitù.

Samuel Bass il canadese – e non è davvero canadese per caso, se ci ricordiamo il bel libro Manituana in cui i Wu Ming ci hanno ben spiegato che se la corona britannica era contro lo schiavismo e la soggezione dei pellirossa, la nuova Repubblica Federale i pellirossa li sterminò e si tenne ben stretta la schiavitù, – rappresenta la svolta filosofica, quel deus ex machina che permette a Solomon di ricongiungersi con la sua anima di uomo libero.

Il film, che pure potrebbe indulgere a facili sentimentalismi veicolati dalla tematica ‘privilegiata’, si mantiene sempre su un tono di asciutta secchezza quasi cronachistica. Da che parte stia il regista, se proprio vogliamo saperlo, lo capiamo da quella panoramica dal basso in alto, proprio ad inizio film, in cui il primissimo piano dei mattoni rossi della cella in cui è rinchiuso Solomon lascia il posto, in carrellata verticale, al piano lunghissimo in cui scorgiamo, sulla linea dell’orizzonte, il Campidoglio: come a dire che da sempre queste cose succedono perché chi potrebbe evitarle resta a guardare.

E’ un film sulla schiavitù, certo. E’, ancora di più, un film sulla libertà. Sulla libertà di usare il pensiero per evadere dalle prigioni di mattoni, la libertà che Zivago trovava nella poesia e di cui già Spielberg ci aveva magistralmente e filosoficamente parlato nel suo (a torto trascurato) Amistad. America, ricordati chi sei!, dice l’avvocato/ex presidente Anthony Hopkins nella famosa arringa finale del film di Spielberg; ricordati che sei, insieme con l’Inghilterra, la nazione che ha inventato il concetto di ‘libertà’.

In fin dei conti, se noi tutti che siamo cresciuti con Kunta Kinte e Radici non ci scandalizziamo troppo nel vedere queste schiene nere squarciate (“aprile la schiena!” ordina Epps/Fassbender a Solomon costretto dalla psicopatia degenerativa del padrone a frustare la giovanissima schiava Patsey [Lupita Nyong’o] perché aveva osato prendere del sapone per lavarsi), non possiamo per contro non apprezzare come McQueen ci inviti a ragionare sulla schiavitù da una prospettiva diversa, più intimista e paradossalmente più dolorosa. La scena in cui una schiava, nel dormitorio comune, incita Solomon a masturbarla e, arrivata alla soddisfazione, si gira per piangere rappresenta bene il punto estremo a cui l’essere umano può portare il suo simile, costringendolo ad una ricerca di contatto che dovrebbe portare conforto ma non fa che umiliare.

Un Oscar meritato dunque, che ci dice di come l’America (quasi nelle orecchie risuonassero ancora le parole del giovane avvocato Rolfe di Vincitori e Vinti che al giudice Spencer Tracy chiede appunto “come osate gudicarci, proprio voi?”) abbia voluto, con un premio così importante, prendersi la responsabilità di ammettere un passato scomodo e tuttavia da rivisitare e sviscerare sempre di più, sino a stufarcene, se necessario.

Se negli anni ’40 David O. Selznick ci fece credere con Via col Vento – ed allora era giusto così, – che se proprio la schiavitù non era ‘cosa buona e giusta’ perlomeno era comprensibile e tollerabile, nel nuovo millennio un regista di colore può ben fare un film di ottima qualità per dirci che se di schiavitù ce n’è anche solo una, allora siamo schiavi tutti. Per primi i padroni.

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