Ancora sulle partecipate del Comune
Le partecipate hanno sempre rappresentato per i Comuni o un fattore di sviluppo e di volano economico per la città o, spesso, purtroppo, solo guai giudiziari o buchi neri nei bilanci. E l’esempio del quasi default di Roma è noto a tutti. La tradizione meneghina è molto particolare e vive in un contesto favorevole dal punto di vista del mercato e delle risorse umane. Credo che per Milano, prima di tutto, vada chiarito cosa si vuole fare delle aziende a partecipazione pubblica. La scelta è se dismetterle in toto e determinare come utilizzare i soldi introitati o venderle a pezzetti detenendo comunque la maggioranza e collaborando con i nuovi soci, sia che essi siano pubblici o privati. Questo è il caso di Sea, che merita una progettualità futura che oggi non esiste. Ben diversa è la situazione per Atm che può convivere con successo da sola o, al massimo, trovare delle joint venture dello stesso scopo. Quindi, la parola capitalismo metropolitano mi lascia un pò perplesso. Si presta infatti a molteplici interpretazioni. Preferisco parlare di efficienza amministrativa e di progetto metropolitano. Si, certo, metropolitano. Perché se nascerà la Città metropolitana sarà necessario guardare un po’ più in là delle mura spagnole ed elaborare il futuro su un’area vasta, ovvero la Grande Milano. E la Città metropolitana non nasce solo con l’unificazione delle strutture sulla mobilità, ma con la creazione di un’istituzione funzionale, di cui non si può fare a meno. Le partecipate sono di successo anche grazie al capitale umano. La dicotomia tra presidente, amministratore delegato e direttore generale può risultare un falso problema, e non può essere trattato asetticamente. Infatti, vi è la necessità di tenere conto di ogni realtà specifica: ogni azienda ha le sue peculiarità che vanno rispettate. Altro nodo è quello di come si scelgono i membri del Consiglio di Amministrazione: affidarsi a una società di cacciatori di testa è bella come immagine mediatica, ma non è certo la panacea. La mia esperienza, sia di amministratore pubblico, sia di esperto di relazioni industriali e di gestione delle risorse umane, mi porta a dire che, a volte, conta molto di più la percezione personale che tanti effimeri colloqui o test attitudinali. E poi, vi è una differenza abissale tra la gestione di un’azienda privata e quella di una pubblica. Per quest’ultima servono anche doti politiche, ovvero della conoscenza e della comprensione della società in cui nuota l’azienda. Sarebbe un errore non tenerne conto. La novità e il modernismo si misurano con le risposte che si è in grado di dare, non solo mutando il metodo selettivo. In una società, già fin troppo liquida, i partiti possono ancora intervenire, se così non fosse saremmo a una nuova fase istrituzionale che, per la verità, mi fa un po’ paura.
Di Roberto Caputo, Vice Presidente del Consiglio provinciale di Milano