Fra tre mesi esatti, saranno passati 30 anni dalla morte di Enrico Berlinguer. Non sono comunista. Non lo sono mai stato – sono nato nel 1989 – e quando penso ad Enrico Berlinguer mi vengono in mente cinque immagini.
Mia nonna (democristiana) che ripete “eh, Berlinguer sì che era un politico serio e tutto d’un pezzo, mica come quelli di oggi” (affermazione che va sempre in coppia con la medesima relativa a Moro); Il finale alternativo del film “Buongiorno notte” di Bellocchio; i fischi assordanti che lo ricoprono al congresso socialista di Verona del 1984, rivendicati da Craxi con il celebre “Se quei fischi sono un segnale politico contro quella politica, non mi posso unire a quei fischi … solo perché non so fischiare!”; le prime pagine de L’Unità – quella “Berlinguer gravissimo” e la celebre “Tutti” – attaccate nella parte interna di un’anta dell’armadio dello studio di mio babbo; un mio professore universitario che, in modo provocatorio, afferma nettamente che “se abbiamo Berlusconi, lo dobbiamo a Berlinguer”. Provo a connetterli uno ad uno, come i puntini con la matita, facendo spesso riferimento alle pagine de “Il desiderio di essere come Tutti”, di Francesco Piccolo, un libro che ho molto apprezzato.
1. Berlinguer era “un’uomo tutto d’un pezzo”, credo che mia nonna abbia ragione. Un gigante, un grande segretario del PCI. A partire dai primi anni ’70, anche in seguito alle vicende cilene, comincia a condurre la fase che prenderà il nome di compromesso storico, quella ideata con Moro per portare il partito che rappresentava un terzo dell’elettorato italiano, della società italiana, al governo. Il trionfo definitivo del consociativismo? L’ennesima reincarnazione di quello spirito trasformistico che, come una lunga linea immaginaria, congiunge il Connubio Cavour-Rattazzi e le liste trasformate di Depretis con le elezioni del 2013? Può essere, ma quella era una strategia politica. Una strategia che non prevedeva la trasformazione del più potente partito comunista dell’Europa occidentale in una più moderna socialdemocrazia che competesse per il governo ma piuttosto un governo consociativo di cui fosse parte anche un partito più o meno autenticamente comunista. Una strategia. Condivisibile o meno, ma pur sempre una strategia politica. Poi, però, accade qualcosa per cui, al momento della sua morte, come scrive Francesco Piccolo, Berlinguer “lascia in eredità l’etica politica – un elemento necessario, ma che non si affianca più alla strategia politica, bensì la sostituisce.”.
2. Che cosa accade, esattamente? O, meglio, che cosa non accade? Sostanzialmente non si verifica il finale alternativo descritto da Bellocchio in “Buongiorno notte”: Moro viene ucciso dalle BR – non passeggia solitario in una deserta ed addormentata Roma all’alba del giorno della sua liberazione. Il compromesso storico fallisce, il PCI non entrerà mai a far parte del governo e torna stabilmente all’opposizione. Ma stavolta, più di sempre, dell’opposizione e della sconfitta – una sconfitta che è tanto più ben accetta quanto più rafforza le proprie idee – il PCI comincia a farne la propria cifra distintiva.
3. Il PSI di Craxi comincia a rappresentare l’innovazione a sinistra; un’innovazione forte, decisa, cinica, spietata. Il PCI di Berlinguer, definitivamente fuori dal governo e dalla maggioranza, decide di collocarsi financo fuori della realtà. L’epico scontro tra i due leader sull’accordo di San Valentino sulla questione della “scala mobile” mi sembra sintomatico. E così, nel maggio del 1984, si giunge a quei fischi del congresso del PSI. Sempre Francesco Piccolo, da cui prendo in prestito la descrizione della reazione emotiva di un comunista – che io non posso aver provato e dunque conoscere – racconta come la frase di Craxi che rivendicava i fischi sia stata “una frase che non è stato mai possibile accettare. Un punto fermo della mia divaricazione, da cui non era più possibile tornare indietro: l’amore per (l’identificazione con) Berlinguer, l’odio per Craxi. Prima, una collettiva dimostrazione di inimicizia, violenta, mai prima espressa nei confronti di Berlinguer (nostri), da nessuno schieramento avversario. Poi la frase di Craxi. Da uomo libero e autonomo, dico con serenità che non ho (non abbiamo) mai perdonato e che non perdonerò (perdoneremo) mai. Per me Craxi, da quel momento, rimarrà per sempre quello che dice che non ha fischiato solo perché non sa fischiare.”.
4. Quei fischi, tuttavia, avrebbero dovuto sortire l’effetto di svegliare il PCI di Enrico Berlinguer dal torpore della purezza, della diversità morale, dell’alterità rispetto alla politica ed alla società italiane per come andavano evolvendosi, ma – di più – dell’alterità rispetto alla realtà in cui si era andato a cacciare dopo il fallimento del compromesso storico. Ed invece succede che Berlinguer muore. Muore uno straordinario segretario del Partito Comunista Italiano. E ai suoi funerali, in piazza San Giovanni, si riversa una spaventosa quantità di persone che, in gran parte, sono lì anche per ribadire la propria diversità, etica e morale, dal resto della politica, della società, della realtà per quella che è diventata, per come sta progredendo. Sono lì anche per conservare qualcosa di puro che non vogliono che vada perduto, che non vogliono contaminare. L’opposizione al progresso, la conservazione della purezza. Sento di essere un po’ ingeneroso nei confronti dell’interno dell’anta dell’armadio dello studio di mio babbo. Ma in molti sono rimasti lì, appesi a quell’anta, come se la realtà che è seguita non li riguardasse più. E del resto – prosegue la parabola tracciata da Piccolo nel suo libro – basta guardare il comportamento di Fausto Bertinotti nel 1998 col governo Prodi. Lui, Fausto, che si proclama erede di quella diversità pura da conservare, può permettersi di buttare gambe all’aria il primo governo repubblicano della sinistra in Italia, perché che importa se quel governo sta contribuendo sensibilmente a migliorare finalmente la realtà dei cittadini italiani, a lui importa di rimanere fedele a quella purezza identitaria che Prodi starebbe tradendo. La realtà può essere sacrificata, pazienza.
5. Ed eccoci arrivati alla provocatoria frase del mio professore, la quinta ed ultima immagine. “Se abbiamo Berlusconi, è colpa di Berlinguer”. Ovvero, se abbiamo deciso di abbandonare qualsiasi strategia politica per incidere, da sinistra, sulla realtà, riformandola per come crediamo giusto farlo; se abbiamo preferito abdicare a riformare e modificare –migliorandola – la realtà; se abbiamo scelto di proseguire fedelmente la strada del PCI dopo il compromesso storico, di ritirarci “dal proposito del progresso per trasformarsi in forza reazionaria”, abbiamo aperto la strada a chi quella realtà invece ha proposto di riformarla. Da destra però. Nel 1994 il riformismo sembrava di destra, la conservazione di sinistra. E questo, a mio parere, è inaccettabile.
Se vogliamo davvero commemorare Enrico Berlinguer, quella straordinaria figura che tuttavia io non conosco e non potrò mai conoscere, non ne esaltiamo la fase della sostituzione di una qualsiasi strategia riformista con un esclusivo richiamo alla purezza etica, morale. Facciamo nostro lo straordinario rigore di uomo e di politico, imprescindibile connotato di una proposta politica che vive però la realtà ed aspira ad essere maggioranza per riformarla.