Un racconto di Leonardo Malaguti
(Fuori)
I diavoli sedevano in cerchio nel cortile posteriore della vecchia casa colonica, tra il patio e il laghetto, serafici. Il sole era alto nel cielo.
“Il sole è una stella” disse l’anziano Azzimandro, fissando l’astro dritto negli occhi.
“Davvero?” chiese Beschio, il giovane occhialuto.
“Eh, non lo sapevi?” schernì Makhmet, il più paonazzo, ma fu ignorato.
“Il sole è una stella, certamente” continuò Azzimandro “E come ogni stella è un cerchio passante per i cinque vertici del pentacolo.”
“Davvero?” domandò Makhmet.
“Eh, non lo sapevi?” ridacchiò Beschio.
Si scambiarono un’occhiataccia. L’anziano si perse a guardare il sole, parlando tra sé e sé “Astro vorace” bofonchiò.
La luce scaldava la pelle carminia dei tre demòni, facendo scivolare gocce gialle di sudore lungo i corpi nudi, qualche mosca cincischiava nelle metà caprine del loro corpo e gli zoccoli battevano contro le ricciolute sedie metalliche un lieve ritmo di tango. La casa colonica era un imponente edificio bianco con infissi di ferro dorato ormai mangiati dalla ruggine; il tetto era orlato da una lunga grondaia scrostata da cui gocciolavano rane. Il pomeriggio era umido e ronzante, appiccicoso come le camelie marcite che giacevano a terra. Makhmet ne raccolse una e l’annusò, le sue narici erano aguzze.
“Mi piace sedere in questo giardino quando picchia il sole” pensò, mentre l’odore acre del fiore avariato gli impregnava le dita: strinse forte il pugno e un succo biancastro gli scivolò lungo il polso.
“Volete dell’altro tè, compagni?” domandò Azzimandro cortese
“Credo farò un bagno nello stagno delle carpe” sussurrò Beschio togliendosi gli occhiali
“Vengo con te!” disse entusiasta Makhmet e gettò a terra i resti sconquassati della camelia. Mentre i due diavoli, rossi fulgenti, si gettavano nelle acque putride dello stagno, felici come bambini, Azzimandro sorseggiò un’altra tazza di tè fissando intensamente il sole
“Bruceremmo anche noi, lassù” sibilò tra le fauci, poi prese a battere a terra con gli zoccoli.
(Dentro)
Il salone era un cubo azzurro antigeometrico, parallelo e non, con tendenze d’astrazione nel suo susseguirsi di lati canonici e contro-lati sinusoidali, tali che lo spazio cupamente claustrofobico sembrasse eviscerarsi ed espandersi, in un costante processo di peristalsi. Era una costruzione d’avanguardia che, a detta di tutti, faceva a pugni con lo stile coloniale della facciata.
“Graziosa, vero?” domandava la signora con la luce negli occhi alle amiche, mentre le amiche emettevano rantoli. “Meglio il Liberty” dicevano.
Talmente ardito era il contrasto che la madre della signora, moglie devota del defunto padre, pronipote dell’uomo che di quella casa aveva posto la prima pietra, vedendo l’esito di quella ristrutturazione temeraria si era sciolta come neve al sole, macchiando irrimediabilmente le travi bianche della veranda. Perfino l’architetto, un tale Ubu Rayòn, messicano di origine somala, fin dal principio era rimasto profondamente impressionato dai suoi stessi disegni, tanto idolatrati dalla committente, poiché, a suo dire, non li riconosceva, quasi fossero nati come un fiore velenoso dal giorno alla notte. Talmente ne fu scosso che, a lavoro non ancora ultimato, si era gettato nel laghetto del giardino, dal quale fu ripescato, parecchi giorni dopo, con i polmoni gonfi di rane. I coniugi, entusiasti di questo clamoroso susseguirsi di perplessità e decessi, folli amanti del sensazionale, abbracciarono quelle bozze misteriche come un credo e fecero ultimare la costruzione da un gruppo di architetti apatici che furono capaci di portare a termine il lavoro evitando tragici coinvolgimenti emotivi.
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